(Dark Essence Records) Quando Hoest scrive un album, il settimo in questo caso, c’è sempre da aspettarsi di tutto. E, conoscendolo, è quasi una garanzia il fattore sorpresa, quell’irriverente modo di fare che sembra urlare ‘faccio una cosa diversa solo per rompere i coglioni’. Basta considerare il black tradizionale di album come “…Doedskvad” o “Noregs Vaapen” confrontato con le stranezze di “Strieden Hus”, fino al fattore sperimentale dell’EP “Kulde”. “Kong Vinter” non è da meno e si colloca contemporaneamente ai due antipodi: il miglior album dei Taake e pure il peggiore in assoluto. Siete estremisti old school, fottutamente ‘trve’ e fedeli a certe sonorità ottuse? Allora vi schiererete con i detrattori. Sarà una guerra santa. Amate stranezze, idee innovative, componenti progressive sempre dentro un contesto visceralmente black? Allora, hey, questo “Kong Vinter” vi romperà qualsivoglia equilibrio mentale! Il Re Inverno: settimo album, con sette tracce provocanti, progressive, potenti, violenti, sporche, intelligenti e piene di una componente che in musica è importante come l’acqua per la vita: il groove! “Sverdets Vei” regala immediata violenza, una violenza quasi rituale, quasi epica… e già nei paraggi del ritornello si sente quel groove megalitico, immenso, travolgente. Ma non è solo il groove a dominare “Kong Vinter”: c’è una infinta componente prog, una componente nella quale Hoest si abbandona, si espande e, pur rimanendo fedele alle sonorità black, disegna melodie, improvvisi cambi di tempo e fattori inaspettati e totalmente imprevedibili; “Inntrenger” è un perfetto esempio di questa crescita tecnica e spirituale nel songwriting, un brano possente che regala un mid tempo melodico semplicemente ipnotico. “Huset i Havet” (‘La casa nel mare’, ndr) è oscura ma pesante fino ad un repentino cambio tematico, dove tutto diventa carnale, folkloristico, introspettivo e maledettamente selvaggio, tra un cambio di tempo e l’altro, tra un pattern ritmico assurdo ed una linearità cadenzata tipicamente black. La controparte “Havet i Huset” (‘il mare in casa’, ndr) è misteriosa, strana: un tremolo dominante con ritmiche che si materializzano e si dissolvono in una cacofonia deviata e sorprendentemente catchy. Oscura e pesante “Maanebrent”: brano ricco di deliziose dissonanze, che si evolvono fino ad una ritmica DSBM micidiale, suggestiva ed ancora una volta ricca di groove, anche grazie a linee di basso taglienti e provocanti. La conclusiva “Fra Bjoergegrend mot Glemselen” è lunghissima: oltre 10 minuti di divagazione artistica: ritmica, scenari, teatralità (suggestiva la parentesi di basso)… come descrivere un brano simile? Immaginate, con fantasia (molta), un “Rime of the Ancient Mariner” in contesto black; attenzione, il brano non assomiglia minimamente alla citata canzone degli Iron Maiden, ma nel contesto del disco di appartenenza ne assume un simile valore emozionale, compositivo ed esecutivo, un percorso complesso, tortuoso, improvviso… pur rimanendo sensuale, attraente, suggestivo e trasudante groove. Settimo album. Settima fatica. Un concetto biblico. Una parvenza divina. Bagliori celesti… fiamme dell’inferno: la settima dichiarazione artistica, la settima offesa, la settima profezia, la settima profanazione. Il settimo peccato. Infinitamente capitale. Violentemente mortale.
(Luca Zakk) Voto: 9/10