(Nuclear Blast) Ho sempre considerato i Tankard una band ingiustamente sottovalutata. Sarà forse per i testi goliardicamente alcolici e l’attitudine scanzonata, la band di Francoforte non è mai stata presa troppo sul serio, pur avendo personalità da vendere e un sound riconoscibile tra mille, a differenza dei compatrioti Destruction, osannati all’inverosimile, ma totalmente derivativi dagli Slayer e primi Metallica. La band guidata dall’Italo Tedesco Andreas “Gerre” Geremia, infatti ha da sempre optato per l’essere originale, anche a costo di perdere il treno verso il successo, tanto che in trentadue anni di carriera non hanno mai inciso una cover, sviluppando invece un thrash metal personalissimo, con un’attitudine vicina al punk e qualche spruzzata di sano rock’n’roll. Questo sedicesimo album si mantiene sulle coordinate stilisticamente del precedente “A Girl Called Cerveza”, probabilmente il loro capolavoro insieme a “Chemical Invasion”: assalti all’arma bianca come l’opener “War Cry” o la successiva “Fooled By Your Guts” si alternano a episodi sempre aggressivi ma un po più melodici, come la title track aperta da un riff di matrice doom e un coro finale tra l’epico e la canzone da birreria. Non mancano i mid tempo, come “Riders Of The Doom”, caratterizzata da un riff di chitarra veloce tipicamente thrash, con la batteria cadenzata di Olaf a creare una ritmica perfetta per fare headbanging, così come la successiva “Hope Can’t Die”, dall’incedere più rock’n’roll, ovviamente rivisitato alla maniera dei Tankard. “No One Hit Wonder” richiama la scuola Svedese nel riffing vicino ai The Haunted. Non è il brano migliore del lotto, ma comunque ha un buon tiro. “Breakfast For Champions” è un altro mid tempo dal ritornello davvero molto accativante e semplice. “Enemy Of Order” è il tipico pezzo thrash alla Tankard, dalla struttura simile a “A Girl Called Cerveza. Prevedo un pogo consistente se suoneranno questa canzone dal vivo. “Clockwise To Deadline” è caratterizzata da un riffing incalzante e veloce alla Motorhead. Con la chitarra di Andy che macina riffs corrosivi, fino all’assolo armonizzato e melodico. La conclusiva “The Party Ain’t Over ‘Til We Say So” è una delle migliori dell’album, dal riffing quadrato alternato ad accelerazioni repentine e cori potenti. Lo stile non è mutato molto dai lavori precedenti, forse questo è un po’ più aggressivo rispetto al suo predecessore, ma le coordinate del sound dei Tankard sono le stesse, portate avanti orgogliosamente e con coerenza fin dall’inizio della loro carriera.
(Matteo Piotto) Voto: 8/10