(Candlelight Records) Con tutta sincerità, questo lavoro è bello a prescindere. Non è un giudizio a scatola chiusa, infatti l’album è in mio possesso dalla fine di novembre e ho avuto modo di intervistare Ben Ward e ascoltare lungamente “A Eulogy for the Damned”. L’affetto per gli Orange Goblin mi è nato tardi, ma l’approccio alla band si è tramutato nel tempo, appunto in affetto. “A Eulogy for the Damned” supera anche l’ottimo “Healing Through Fire” e per un motivo importante, lo stoner degli inglesi questa volta è più rock e scorrevole (“Save Me from Myself”). Ben Ward e soci forse hanno lavorato su pezzi meno poderosi (ma la seconda metà dell’album mi potrebbe smentire) e tuttavia non per questo mancanti d’impatto: il punto è che sono più omogenei e forse Andy Jackson (tecnico del suono per i Pink Floyd) con il suo mastering ha dato, in positivo, il proverbiale “colpo di grazia”. “A Eulogy for the Damned” è un frutto meno acerbo nato nella discografia degli Orange Goblin ed è quello che serviva per non essere i soliti Orangers. Certo, lo stile è quello tipico, forse sono un pochino più southern rock, per alcune svisate delle sei corde, sono macroscopicamente meno cadenzati in buona parte dei pezzi, le fugaci tastiere in giro (“The BIshops Wolf”) impreziosiscono il sound, ma c’è scioltezza, disinvoltura e il percuotere di Chris Turner ne è un indicatore affidabile. L’album esce il 13 febbraio, proprio come nel 1970 uscì il primo dei conterranei Black Sabbath. Però gli Orange Goblin riescono ad andare anche oltre il cliché Black Sabbath.
(Alberto Vitale) Voto: 8/10