(Code666) Immensi. Geniali. Gli inglesi Fen hanno trovato una formula superlativa, senza eguali. Giungono al quarto album senza perdere minimamente lo stile, senza soffrire quella tipica legge universale secondo la quale quando si è raggiunta la vetta si può solo scendere. Anzi. Così, dopo il grandioso “Dustwalker” anche “Carrion Skies” risulta sconvolgente, perfetto, intricato, molto coinvolgente. Normalmente associati al prog black metal, o al post black metal, il loro stile è libero, ispirato, lontano da legami che non integrino le componenti base del loro sound: atmosfera, potenza. L’atmosfera è sempre presente, grazie ad una invidiabile capacità di dare una struttura, un percorso alla canzone; le sensazioni sono supportate da un songwriting apocalittico, una colonna sonora di un turbinio di emozioni oscure, contorte, malate. La potenza musicale è indiscutibile e riesce ad offrire riff impattanti, mai troppo complessi o inospitali; ma questi riff godono di musicisti molto validi (drumming e basso sono sconvolgenti), ma anche di una visione degli arrangiamenti veramente distintiva: le canzoni dei Fen vantano innumerevoli cambi, molteplici situazioni diverse che si manifestano all’ascoltatore… ma si tratta sempre di concetti chiari, attraenti, concetti che seguono un filo logico, una trama che si dipinge, rivela progressivamente, stupendo, impressionando ma anche accompagnando. La musica dei Fen è un progressive che non stupisce per le criptiche complessità tipicamente solo per intenditori, si tratta piuttosto di un progressive strutturale e la vera complessità risiede nel songwriting e negli innumerevoli dettagli percepibili dall’ascoltatore attento altrimenti non dominanti ma comunque sempre presenti ai fini della resa sonora, del percorso musicale, della valorizzazione di ogni singolo passaggio. Musica sublime, complessa, composta per risultare fruibile, per trasmettere le sensazioni, per impattare ed impressionare. Un viaggio di oltre un’ora che si divide in soli sei capitoli, tutti lunghi (ma mai scontati), con durate individuali spesso oltre i dieci minuti. Apre “Our Names Written in Embers – Part 1 (Beacons of War)” che immediatamente domina la scena. Un pezzo che alterna momenti di furia con atmosfere riflessive, istanti che toccano il black, il doom, il death. La seconda parte (“Our Names Written in Embers – Part 2 (Beacons of Sorrow)”) continua in maniera più drammatica il percorso della prima, aggiungendo più struttura, più cattiveria, dando origine ad un pezzo poderoso, violento ma sempre capace di costruire quell’atmosfera opprimente che i Fen sanno materializzare. Stupenda “The Dying Stars”: tutti gli strumenti fanno un lavoro immenso e danno vita ad una canzone che si alterna tra gli estremi: l’estremità violenta con blast beat e singing devastato e l’estremità atmosferica, dove arpeggi che diffondono pace, tranquillità creano quell’alternanza sconvolgente ed irresistibile. Efficace “Sentinels”, forse il pezzo più black dell’album (sempre secondo i criteri dei Fen…), mentre “Menhir – Supplicant” sembra richiamare i suoni tipici di questo album, intensificandoli ed aggiungendoci un elevato livello di brutalità e violenza, di ritmica coinvolgente, di groove devastante. La conclusiva “Gathering the Stones” -la più lunga dell’album- è forse il pezzo più complesso, ma anche più lineare, a tratti epico, una canzone che disegna scenari a cavallo tra la devastazione e l’armonia dell’infinito, della natura, del silenzio. Un album che scorre impetuoso. Un album che, come le onde dell’oceano, a volte è un simbolo di pace e armonia, mentre a volte è brutalità e forza immensa, totalmente incontrollabile, piena di furia e violenza. Emozioni, pensieri, gioia e sofferenza trasformate in musica: una trasformazione pura, perfetta. Una trasformazione di questi elementi che, forse, è una loro evoluzione. Il passo successivo. L’ultimo passo di una vita dipinta con le sfumature di grigio più tetre.
(Luca Zakk) Voto: 9,5/10