(Svart Records) Dopo due anni di gavetta con innumerevoli demo registrati in presa diretta -lo-fi-, arriva il debutto professionale (il quale, comunque, fu precedentemente registrato senza overdub) di questa impattante band svedese impegnata su un death/doom. Il death c’è per linee vocali, orientamento, testi e qualche stupendo richiamo agli Entombed. Il resto però è un malvagio doom, di quelle con pesantezza inconcepibile, con riff ipnotici che mettono in movimento il collo, avviano un cadenzato e mortale headbanging il quale diventa irresistibile e … letale. Pesante come la morte, infatti, proprio come predica il chiarissimo moniker. E pure il titolo del disco è perfetto: sonnambulo eterno, un sonnambulo in preda ad incubi visionari, un sonnambulo che vaga nel nulla, in una atmosfera soffocante, perversa, putrefatta, dove l’unico odore percepibile è quello della morte. E della sofferenza. Il trio, tutta gente con un passato nei -tra gli altri- Runemagick, punta all’essenzialità dichiarata: una chitarra, un basso, una batteria. Ed un po’ di voce. Niente di nuovo, certo… almeno fino a quanto non si lascia girare il disco e ci di trova davanti alla opener intitolata “Ascending” la quale parte da un cadenzato rullante che lascia emergere un macilento riff alla Cathedral, perfetto per condurre subito all’esaltazione. Il tutto con un legame anni ’70 e divagazioni tra i classici del doom, tocchi psichedelici, appesantiti da direzioni death. “Ascending” prosegue con un riff lento ma massacrante, un’atteggiamento etereo ed una resa globale che attira la censura, tanto è perversa e meravigliosamente illegale. La sporcizia iniziale di “Roat To The Fire” evolve in un riffing veramente “chitarra-basso-batteria”, lento, ossessivo, ma capace di disintegrare le vertebre, con linee vocali che materializzano inquietudine. Tutto bene? Tutto chiaro? Può mai essere più pesante di così? Si. Può. “Bow Down” sputa contro l’ascoltatore nove maledetti minuti di doom lentissimo, quasi funeral, con un altro di quei riff ossessivi, laceranti, sanguinosi, assassini, tutti annegati tra linee vocali sia eteree che crudeli, le quali rendono il pezzo un arma letale, qualcosa che dovrebbe essere proibito. “Eat The Sun” aggiunge livello tecnico alle precedenti, offrendo degli spiragli di oscura melodia. La title track è un arma di distruzione di massa, mentre “Heavy As Death” è la conseguente marcia funebre, la colonna sonora di ciò che rimane dopo lo sterminio. E l’epilogo porta al buio assoluto: “Beyond the Riphean Mountains” gira praticamente su una sola nota e crea un atmosfera tra l’euforico ultraterreno ed il funereo infernale. Cinquanta tre minuti di purezza e dannazione. Di origini ed esaltazioni delle tali. Di dimostrazione di forza. Doom che materializza atmosfera senza dimenticare un approccio intelligente alla composizione. Un album maledettamente semplice, assurdamente efficace.
(Luca Zakk) Voto: 8/10