(Nuclear Blast) Secondo complesse logiche redazionali, i Soilwork vanno sempre a chi scrive. La complessità della cosa la si potrebbe tranquillamente spiegare così: agli altri non piacciono. Io a loro, ma soprattutto al loro genere, sono poco interessato e probabilmente è così anche per i colleghi. Tuttavia lavorando nel tempo ai loro album, mi ha messo di fronte a due certezze. La prima è che la band svedese è sostanzialmente tra le migliori di questa prosecuzione della tradizione melodic (death) metal svedese che si tramuta in metalcore. Sono dei capiscuola, sono un riferimento per molte band. La seconda certezza è che nel tempo Bjorn Strid e soci hanno aumentato attraverso la progressione di album pubblicati, il loro valore e qualità. Senza andare a pescare situazioni passate e a disquisire su quale sia stato ed è il genere dei Soilwork, argomento sul quale molti ne avrebbero di cosa da dire, ma restringendo l’analisi a questo “The Ride Majestic”, si può di nuovo affermare che il metal moderno della formazione blu-crociata è di qualità. Un nuovo tassello di se stessi, per della musica che diventa più profonda e ampia per quanto riesca a contenere soluzioni musicali diverse (per spiegare questa definizione basterebbe ascoltare “Death in General” per capire) e inflessioni, a stili un po’ old style e ad altri nettamente attuali. Si sente e già dalle prime battute dell’album, quanto i Soilwork siano ormai sicuri di se stessi, definitivamente imprigionati nel loro modo di comporre che non offre sbavature. Difficile analizzare “The Ride Majestic” e quantomeno a quantificarlo dal punto di vista numerico del voto. Del resto i Soilwork sono soggetti, almeno è questa l’impressione di chi scrive, a due tipologie di valutazioni numeriche: alta o medio-alta. Nei contenuti alla band si concedono grandi meriti, oppure le si biasima una certa flessione avvenuta a strappi negli ultimi anni e che la porta a ripetere se stessa. Bah, ma quanti sono che cadono in questo reiterare? Tanti e tanti… Andiamo avanti, si badi all’album. Sostanzialmente i Soilwork negli ultimi tempi hanno significativamente puntato a una maggiore personalizzazione del sound. Ascoltando “The Phantom” ad esempio, si ha l’impressione di vivere un assalto death/black metal, con quei blast beat irruenti e il riffing serrato e selvaggio, eppure tra tastiere di Sven Karlsson e sospensioni della rabbia, ecco che il lato melodico e ‘canonico’ della band salta fuori. Tuttavia questo brano è uno spaccato di come si riesca ad essere parte di un qualcosa di estremo, pur non essendolo totalmente. I Soilwork insomma, come ormai abbiamo imparato a conoscerli.
(Alberto Vitale) Voto: 7,5/10