(Peaceville) Nuovo capitolo che esplora ancora i territori di ‘Night Is the New Day’ e prosegue nell’ambiziosa esperienza avanguardistica, decrescente forse in termini di sorpresa ma non per qualità, suggestione sonora e nobiltà d’intenti. Suoni malinconici per un risultato che sarà anche poco metal, secondo alcuni, ma che scalpita sotto la superficie e vive di frammenti, colori e risvolti inaspettati, evoluzioni che partono dal passato ma che in quest’album si muovono ancora più libere. Renske, Nyström e compagni danno prova di essere musicisti di razza, ‘Dead End Kings’ e’ il raffinato prodotto di una coscienza artistica che filtra , attraverso la ricerca, la perfezione stilistica e traduce in spleen un sound unico, mettendolo al servizio dei tumulti interiori dell’animo umano. Melodie liquide ed un riffing d’impatto danno vita ad una delizia sensoriale che trasporta l’ascoltatore ai confini più remoti di un universo totalmente imprevedibile che alterna la solidità del Metal al languore sofferente del Dark Rock e alla sostanza elegante del Progressive. Piano, organo, archi, chitarre energiche ed elettronica rientrano, intensi e proficui, in un perfetto meccanismo volto a liberare nuovi linguaggi ed animare gli undici brani presenti. Le parti vocali aggiungono un‘ intensa e magnetica carica espressiva, evocando compiutamente il fascino ambiguo della malinconia. Premettendo che ogni singolo brano di quest’album ha in sé dei momenti affascinanti, caratterizzati da atmosfere avvolgenti, frequenti cambi di tempo, passaggi sperimentali o strutture complesse, in una playlist ideale inserirei senza dubbio ‘Dead Letters’ (a mio avviso memorabile), ‘Lethean’, ‘The Racing Heart’, ‘Hypnone’ e ‘The Parting’. L’album si avvale anche della presenza del produttore David Castillo e della cantante dei The Gathering, Silje Wergeland, che duetta con Renske nel brano ‘The One You Are Looking for Is Not Here’, altro affresco di struggente bellezza. I Katatonia raggiungono, con questo nono lavoro, una stabilità creativa che non è stanca di esplorare l’oscurità, riconfermando di essere davvero in grado di trasmettere la loro visione precisa e definita anche attraverso il songwriting, curatissimo e mai scontato, che narra di una condizione esitenziale decadente. Il Doom degli esordi non è dunque veramente scomparso del tutto, ha solo mutato la sua forma mantenendo intatta la sua sostanza. Quarantanove minuti circa che “aprono le porte del sogno a tutti coloro per cui la notte è avara” (cit. Louis Aragon).
(Federica Sarra) Voto: 8,5/10