(Season of Mist) C’è un tizio a Bergen che vive fuori dal tempo. Veste come un contadino condannato alla città, un crossover tra un prototipo dell’emigrazione verso nuovi lidi del secolo scorso ed un pazzoide disadattato con una psiche elettrizzante. E non è un personaggio che appare così solo sul palco, no, lui è proprio così. L’ho incontrato varie volte, anche recentemente a Bergen, e lui è esattamente l’immagine che nervosamente tortura il palcoscenico, con gli stessi scarponi (quando non si esibisce scalzo). Attorno a lui un gruppo di personaggi eterogenei, due sembrano tipi seri, ma non lo sono, uno sembra pazzo e forse lo è mentre l’altro sembra il rocker devastato e sicuramente non è poi tanto in ordine con il cervello. Fanno la loro musica. Non ha senso parlare di ispirazioni, in quanto esse sono componenti che stanno alla base ma vengono affogate nell’insieme: una birra non ha il gusto dell’acqua e quando la bevo non è come masticare malto, si tratta di una cosa completamente nuova, un’evoluzione delle componenti di base le quali esse stesse mutano verso nuova definizione, una nuova dimensione. I Vulture Industries sono troppo sinceri per essere progressivi. Troppo imprevedibili per appartenere all’avant-garde. Poi sono tanto metal, quanto non lo sono. Pure generalizzare con l’appartenenza a qualche incarnazione del rock sarebbe errato. Il loro quarto album è un crescendo stilistico che affonda e diffonde le radici in quindici anni di una carriera personalissima, contro corrente, lontana dalle mode, lontana dalle definizioni ma completamente immersa nella follia e nella creatività esagerata, pur restando in qualche modo fedele alla terra dalla quale provengono, un tributo costante alla regione e alla natura che ha dato loro i natali. Se questo ventaglio di ingredienti possa -giustamente- dare una impressione di complessità, la risposta della band norvegese è quantomai sconvolgente: basta un solo ascolto per canticchiare ritornelli, e per sviluppare una dipendenza tossica dalla quale è quasi impossibile uscirne. “As the World Burns” è malvagia, perversa ma assurdamente coinvolgente, schifosamente rock, con un crescendo disumano. “Something Vile”, con il suo video esilarante, è semplicemente ipnotica e pazzesca. Pazzesca come la quantità di suoni e stili dentro “Tales Of Woe”. Inquietante “Midnight Draws Near”, un altro brano dove Bjørnar dimostra la sua pazzia artistica con un range impressionante di stili vocali, tutti immensamente teatrali. Cinque contadini, forse ex pescatori, un po’ montanari, incompatibilmente urbani, in qualche modo appartenenti al black, dark, metal, pop, post, pre, avant, après. Quel che volete. Manco loro sanno cosa fanno. Mettono in piedi un circo deviato, dove loro stessi sono sia le belve che i domatori, sia gli acrobati che i pagliacci, sia le maschere che i fenomeni decadenti da baraccone. Ve l’ho detto: sono pazzi e sconnessi dal tempo. Sono puri. E sono geniali.
(Luca Zakk) Voto: 10/10