21.8.2019. Bergen. Ancora una volta. Ancora Beyond the Gates. Un altro Beyond the Gates.
Bergen è una città brillante, bella, accogliente, in ogni condizione meteo. Ed il popolo oscuro, proveniente da tutto il mondo, che converge in quei giorni è a dir poco unico.
Ma questa è un’altra storia. E ve la racconterò presto (update: QUI). Prima c’è un lato più oscuro, nascosto, pestilenziale. Un lato del Beyond the Gates quasi proibito, letteralmente per pochi eletti. Per pochi dannati. Per le anime più disperate e senza speranza.
Il noto festival si tiene generalmente presso l’USF, una bellissima location in riva al mare la quale offre, durante le pause dei cambi palco, un ampio spazio esterno dove puoi startene comodamente seduto con vista sul fiordo in un tramonto tardivo… niente a che vedere con l’esterno delle venues che conosciamo qui in Italia, solitamente posizionate in qualche tetra zona industriale o periferia decadente.
Ma i Watain non hanno suonato all’USF. Anzi, hanno espressamente voluto suonare altrove. E non hanno nemmeno suonato in un locale definibile tale. No, loro hanno suonato in un bunker antibomba, una grotta celata dietro una porta, sotto un rilievo tra i saliscendi della città, dopo un lungo corridoio illuminato da timide candele.
I Watain hanno suonato all’Hulen. Attirando tutte le creature della notte. E dichiarando il sold-out!
L’arrivo all’esterno della grotta è caratterizzato da un fetore fastidioso.
Torturato da qualche sospetto, ma tuttavia ottimista, lascio che la mia mente automaticamente associ l’odore a qualche problema fognario nei paraggi.
Fuori dal ‘locale’, sulla sgangherata bacheca sono appese delle locandine sporche di sangue che recitano: “Beware! Watain are coming”. I miei sospetti iniziano a prendere il controllo.
Entrando, la puzza peggiora. Mancavano ancora delle ore all’esibizione degli svedesi, quindi inizio a pensare che quel fetore non dipenda dalle fognature, e mi ritrovo ad immaginare la congrega dei Watain arrivare molto prima di tutte le altre bands, non tanto per fare un buon soundcheck, piuttosto per marchiare il territorio secondo la loro personalissima e discutibile abitudine. Attenzione, la pestilenza sta arrivando!
L’Hulen è molto buio. All’interno tre altre grotte: una che ospita un bar ed il merchandising, una con un altro bar e relativi cessi, una -quella centrale- con il palco. L’Hulen di per sé sarebbe anche grande, considerando la somma algebrica dei metri quadri, ma la disposizione delle aree rende lo spazio davanti al palco esiguo: la zona dove stare per vedere le bands che si esibiscono è una specie di buco, una mortale tana per topi nella quale è difficile infilarsi e, peggio, dalla quale è ancor più complicato fuggire.
Aprono i tedeschi Imha Tarikat: brutalità totale. Mai un respiro. Assoluta devastazione. Grezzi, volgari. Un branco di animali in cattività abbandonati senza ritegno dentro i meandri delle grotte dell’Hulen. Così selvaggi che al posto del classico “1,2,3,4” scandito dalle bacchette del batterista per dar inizio ad un brano, questi degenerati si sincronizzano con il vocalist senza scarpe che urla in faccia ai compagni con disumana bestialità.
I Ritual Death sono tanto oscuri quanto la venue che li ospita. La band con membri di Mare, Dark Sonority e Behexen massacra il pubblico sparando un death misto a black, con divagazioni dal sapore thrash. Il frontman e chitarrista mascherato da morte rappresenta perfettamente la decadenza rabbiosa della loro musica, mentre le tastiere non occupano mai un ruolo dominante, anzi, sono cinicamente concepite per creare solo un tragico sottofondo che intensifica l’inquietudine, specialmente negli intermezzi tra i brani.
Infine i Watain. Ovvero un’orda di demoni devastati e privi di pietà. L’arrivo sul palco, attraverso il pubblico, con tanto di minacciose torce, senza educazione, sprezzanti ed autoritari. La setlist si aggrappa alla ferocia delle canzoni dei primi album, con un suono esplosivo, tuonante… letale. Ferocia inaudita, una band scatenata in un impossibile equilibrio tra violenza assurda e rituale occulto. Mentre diffondono la loro tortura sonora corredata dall’infestazione olfattiva, me li immagino a casa loro, tra i boschi in Svezia, preparandosi per il prossimo concerto, con quel vecchio e malandato congelatore giù di sotto, in cantina, pieno di ratti morti… surgelati.
Fantasie di una mente intossicata dalle esalazioni malsane, dai miasmi tombali?
Forse. Ma chiedete l’opinione della nostra fotografa, gloriosamente davanti, eroicamente in prima linea, sul fronte… fino a quando Erik Danielsson non decide di spargere con improvvisa aggressività una bottiglia di quel fetido sangue marcio, colpendo tutta la prima fila, senza distinzioni di sesso, razza, età o culto… compresa la fotografa. E relativa attrezzatura. Immaginatevi passeggiare per la città dopo il concerto conciati come la ragazza che vedete nella foto qui a lato…
Finisce il concerto, finisce il massacro. Torna un silenzio da catacomba.
Si torna all’aperto nell’aria frizzante e fresca di una Bergen di fine agosto. Si respira a pieni polmoni cercando -invano- di togliere dalle narici quel lezzo, quell’afrore marcio con il quale i Watain hanno contagiato i presenti.
Serata mostruosa. Infernale. Mortale. Sanguinaria. Lontana da qualsivoglia idea di pietà umana.
Ma si trattava solo di un anticipo, un’anteprima, quasi un teaser delle tenebre che si sarebbero abbattute sulla città nordica nei tre giorni successivi.
Ma questo, come dicevo, sarà un altro racconto.
E questo è quel che rimane sotto il palco dell’Hulen:
(Luca Zakk)