(Long Branch Records) La band dell’ex Type O Negative è tornata, ed è più Type O Negative che mai. Non solo per la complessa oscurità del sound, la fantasia creativa imprevedibile, ma per la fresca aggiunta (dal 2018) di due nuovi elementi: il chitarrista Joe Taylor (ex Doro) ed il batterista Johnny Kelly… quello dei Danzig, proprio l’ex Black Label Society… proprio l’ex Type O Negative… il batterista che sostituì alle pelli Sal Abruscato, ovvero il fondatore e frontman degli A Pale Horse Named Death (Sal fu anche co-fondatore dei Type O Negative con Peter Steele…). Il nuovo album vede la luce a ben sei anni dall’ultima release, ovvero “Lay My Soul to Waste” del 2013, e risulta complesso, teatrale, pesante, contorto e maledettamente oscuro. Musicalmente, ammesso si possano dare definizioni, si tratta di un contorto incrocio tra i Type O Negative e gli Alice in Chains, il tutto rivisto in chiave doom, accentuando l’oscurità globale che emerge in questa ora abbondante di musica intensa, passionale, emozionale. Il disco è estremamente complesso: servono molti ascolti per iniziare a capirne l’intensità; i primi ascolti destabilizzano, non permettono di capire, passando anche attraverso un disagio tale da far etichettare l’album come qualcosa di ‘non buono’. Ma lentamente tutto inizia ad emergere, a venire a galla dalle profondità di queste acque oscure: quel senso apocalittico -ma anche gotico- che sa convergere in dimensioni doom/grunge riesce ad offrire momenti sonori esaltanti. Ci sono dimensioni ipnotiche, melodiche, tetre, brillanti, altalenando tra una costruzione difficilmente assimilabile ed un coinvolgimento quasi catchy. Dopo una introduzione inquietante e gotica (“As It Begins”) è la title track che immediatamente coinvolge con quella melodia di piano e la voce che entra di soppiatto, prima di esplodere in riff meravigliosamente pesanti, decisamente doom. Scorrevole ed intensa “Love The Ones You Hate”, il brano che svela l’atteggiamento grunge ma anche deliziosamente Type O Negative! Decadente ed enigmatica “Fell In My Hole”, malata e letale “Vultures”, canzone che comunque riesce ad essere anche catchy e tagliente. Ipnotica “End Of Days”, un brano inospitale ma dal refrain micidiale… un’altra inequivocabile traccia del glorioso passato artistico dei due quarti dei membri della band. L’album sa sorprendere e sono tracce come “The Woods” che enfatizzano la citata componente teatrale: una specie di rituale tribale che genera malessere ed ansia, prima di accompagnare lentamente verso il doom pesantissimo di “We All Break Down”, un doom che comunque guarda alla luce evidenziandosi con una teoria grunge ma anche epica, gloriosa, assurdamente solare. Riff da headbanging e melodie che fanno viaggiare con “Lay With The Wicked” e “Splinters”, mentre la teatralità torna con il doom complesso di “Dreams Of The End”. La fine del viaggio è ignota, ma difficilmente positiva, come conferma la campana infausta di “Closure”. Il titolo viene esaustivamente descritto con musica e testi, ed inequivocabilmente descrive il percorso verso la rovina del mondo, un percorso che coinvolge anche l’individuo e, probabilmente, Sal nel percorso creativo. Un percorso creativo contorto, con un Sal che aveva ed ha molto da dire. Un disco che ha avuto una lunga gestazione attraverso un labirintico viaggio con alti e bassi, momenti luminosi e tetri: gli A Pale Horse Named Death si focalizzano su questi ultimi, vi prendono per mano, e vi accompagnano attraverso le tenebre reggendo una flebile fiaccola, necessaria per avanzare nel cammino cercando e, per quanto improbabile, di uscirne più forti che mai.
(Luca Zakk) Voto: 9/10