(Nuclear Blast) Ritorno discografico per gli Accept, band leggendaria di importanza fondamentale per tutto l’heavy metal, soprattutto per quello tedesco grazie ad albums come “Metal Heart” o “Restless And Wild”, quest’ultimo aperto da quella “Fast As A Shark che da sola ha inventato il power/speed metal tedesco ripreso poi da Grave Digger, Helloween e Blind Guardian. Di anni ne sono passati parecchi, le strade tra la band ed il cantante originale Udo Dirkschneider si sono divise, ma mentre quest’ultimo fatica ad ingranare, gli Accept hanno trovato in Mark Tornillo un singer in grado di non fare rimpiangere il suo illustre predecessore, registrando il suo terzo album da quando è entrato a far parte del combo. Un album dove sembrano aver trovato la quadratura del cerchio, facendo tesoro di quanto di meglio avevano fatto nei precedenti “Blood Of The Nations” e facendo confluire il tutto nelle undici canzoni che compongono questo album, che parte in quarta con la tirata “Stampede”, canzone dal ritmo forsennato, un po’ sulla scia di “Midnight Mover”. Il pezzo è immediato ed è stato scelto come primo singolo, il che può fuorviare inizialmente l’ascoltatore, in quanto, pur essendo un pezzo spettacolare non rappresenta affatto lo stile del resto dell’album, che verte più verso sonorità epiche e anthemiche, sicuramente più vicine a brani come “Too High To Get It Right” che non a quelle di “Fast As A Shark”. Già dalla successiva “Dying Breed”, infatti le sonorità si fanno più lente e solenni, con un Tornillo sugli scudi, con un range vocale ampio che passa da vocals simili a quelle di Udo ad acuti, fino a tonalità basse e quasi in growling, mentre gli assoli di chitarra sono armonici e seguono la linea melodica del brano. “Dark Side Of My Heart” richiama alla memoria “Up To The Limit”, un mid tempo in quattro quarti un po’ più debole dei due brani precedenti, ma ugualmente efficace e coinvolgente. Arriviamo ora al capolavoro dell’album, l’epica “Fall Of The Empire”, caratterizzata da un riff lento e marziale accompagnato da voci corali e da un ritornello memorabile, da cantare sotto il palco a pugni alzati. “Trail Of Tears” riporta il sound verso lo speed metal; seppure “Fast As A Shark” sia inarrivabile, questo brano mi da sensazioni simili al capolavoro del 1982. una chitarra acustica introduce “Wanna Be Free”, pezzo anthemico e cadenzato con un refrain memorizzabile dopo mezzo ascolto, semplice e coinvolgente, anche se forse un po’ ripetitivo. “200 Years” è una song piuttosto ritmata e ben fatta, ma passa un po’ in secondo piano, rispetto alla qualità dei brani precedenti, anche se la parte solista è di ottima fattura. “Bloodbath Mastermind” è un power quadrato, tipicamente Tedesco, su cui Iron Savior e primi Rage hanno costruito interi album. “From The Ashes We Rise” è forse l’unico episodio davvero debole: preso singolarmente è un pezzo ottimo, grazie all’esperienza della band e allo stato di grazia di Tornillo, ma ha un ritornello praticamente identico a quello di “Wanna Be Free”. Poco male, visto che imitano semplicemente se stessi, ma una canzone più ispirata non sarebbe dispiaciuta. Ci pensano le terzine di “The Curse “ a rimettere ogni cosa al proprio posto, un brano vicino all’hard rock che fonde insieme spigolosità teutonica e un innato gusto melodico. La velocità aumenta esponenzialmente nella conclusiva “Final Journey”, song vicina ai Judas Priest di “Painkiller” per quanto concerne l’aggressivita. Ottima la produzione da parte del mago Andy Sneap, che ha saputo mantenere inalterato il feeling delle vecchie produzioni, potenziandone il suono e rendendolo moderno senza snaturarlo, cosa che tende a fare, ad esempio Roy Z. Dopo l’ottimo album dei Judas Priest, ecco il ritorno degli Accept, più affamati che mai e con tante cose ancora da insegnare agli sbarbatelli che si affacciano sul mercato discografico. Per quanto mi riguarda questo è il disco dell’anno!
(Matteo Piotto) Voto: 9,5/10
(Nuclear Blast) Trovo che il bravo recensore debba mediare fra diverse esigenze: le passioni personali (che inevitabilmente giocano un ruolo), il tentativo di offrire un giudizio oggettivo, le ‘pressioni’ più o meno palesi delle etichette, dei promoter, e anche forse del pubblico, che talora, travolto da un battage pubblicitario condotto ad arte, ha già deciso prima di ascoltarlo che l’album dei propri beniamini sarà un capolavoro. Nel licenziare la mia recensione del nuovo disco degli Accept, il terzo dalla reunion, tento appunto di fare ordine in tutte queste diverse spinte. E in tutta coscienza mi sento di esprimere questo giudizio: “Blind Rage” è sicuramente un buon disco, ma con buona pace di tutti coloro che lo hanno già deciso, NON E’ un capolavoro immortale. Con un’altra etichetta e altri nomi coinvolti, probabilmente non si sarebbe fatto notare più di tanto: mi sembra che l’entusiasmo della rinascita si sia decisamente affievolito, e dunque gli Accept, non più e non meno di tante altre band storiche, eseguano semplicemente (ma bene, sia chiaro) il proprio compito di hard die defenders, sfornando un disco che fa semplicemente il proprio ‘lavoro’. Tutto qui, al di là dell’inevitabile trasporto emotivo che molti, soprattutto fra i più vecchi, possono avere per i tedeschi, e una campagna di marketing che ne ha fatto delle divinità infallibili. Il singolo apripista è sicuramente arrembante, con una produzione in grado di suscitare un terremoto (naturalmente di Andy Sneap), ma Tornillo mi sembra sinceramente meno ispirato stavolta. “Dying Breed” recupera alcune atmosfere epico/marziali di “Stalingrad”, e onestamente mi sembra uno dei pezzi migliori del lotto; più o meno sugli stessi toni il mid-tempo “Fall of the Empire”, mentre poco dopo un altro mid-tempo, “Wanna be free”, appesantisce forse un po’ la scaletta. Tra l’altro, anche sul cantato ‘pulito’ Tornillo mi sembra in calo e sempre meno in grado di reggere il confronto con il Folletto. In “Bloodbath Mastermind” le chitarre marciano che è un piacere, va ammesso come un dato oggettivo, e anche “The Curse”, altro brano a dire il vero attestato su tempi medi, convince grazie a un solido refrain. Si chiude con “Final Journey”, che incorpora un po’ a sorpresa “Morning Mood” di Edvard Grieg (anche se il nome non vi dice niente la conoscete, state tranquilli). Tirando le somme: gli Accept sono ancora qui, vi faranno divertire, venderanno tantissimo e saremo tutti, ovviamente e giustamente direi, ai loro concerti. Ma “Blind Rage” non è “Restless and Wild”. È inevitabile, direte voi? Probabilmente sì, ma serviva qualcuno che lo dicesse.
(Renato de Filippis) Voto: 7/10