(Peaceville) Dieci anni dopo “Antichrist” ecco un nuovo album degli inglesi Akercocke. Un arco di tempo nel quale c’è stata una pausa forzata o chissà cosa, ma il 2016 è stato l’anno del ritorno, con l’esibizione al Bloodstock Festival. Erano i giorni in cui Jason Mendonça, voce e chitarra, Paul Scanlan, chitarra, e David Gray, batteria, si erano rivisti, parlati. Tutto riemergeva dal passato, dunque il futuro prendeva forma e lasciava capire che doveva accadere nuovamente qualcosa di importante. Fatalismo a parte, “Renaissance in Extremis” conferma quanto la band sappia essere oscura ma elegante al contempo, soprattutto ancora capace di produrre musica sommariamente interessante e forse unica. Pur con un collettivo rinnovato – completano Nathanael Underwood al basso e Sam Loynes alle tastiere – il prog death metal degli inglesi raggiunge vette di qualità, attraverso atmosfere dark, addirittura psichedeliche, in alcuni casi fredde, a volte uniche. Lo stile si consolida, sviluppa temi musicali spesso brevi e con strutture care alla band, come i pezzi dal minutaggio sostenuto, cambi di tempo e di atmosfere, stili che rasentano il death puro oppure intercalano in un prog-heavy dai toni epici o sperimentali. Impossibile non avvertire una sensazione ‘da Voivod’, in “Familiar Ghosts” ad esempio, o echi alla Rush che spuntano all’improvviso e svaniscono poi in qualcosa di ignoto oppure nuovo. Le canzoni hanno più direzioni, più soluzioni, ma esaminare le singole composizioni diventa difficile. L’album ha una sua poliedrica dimensione, uno stile naturalmente versatile e tale da introdurre l’ascoltatore in più dimensioni sonore. Musica fruibile, per quanto sia riccamente strutturata, molto metal soprattutto. Peccato forse per le melodie, mai assenti ma sempre brevi e destinate a creare dei bagliori momentanei in questa cascata di suoni che stupisce e non poco.
(Alberto Vitale) Voto: 8/10