(Napalm Records) Con tempismo perfetto (proprio in questi giorni esce l’ultimo capitolo della saga cinematografica dei ‘Pirati dei Caraibi’), gli Alestorm danno alle stampe il proprio quinto album in studio: ancora una volta è un tripudio di bucanieri, imprese epico-ridicole, rum e volgarità assortite, ma mi sembra che ormai il gioco stia mostrando la corda, e i pur simpatici scozzesi sono diventati prigionieri dei propri cliché quasi come i Manowar. Non avevo avuto questa impressione con “Sunset of the golden Age”, ancora vitale ed energico, ma stavolta… Subito la titletrack, abbastanza massiccia ma ormai, come si diceva, senza sorprese; e anche il singolo “Mexico”, dal testo semidemenziale (il ritornello è “Yo! Ho! Mexico! / Far to the south where the cactus grow / Tequila and a donkey show / Mexico! Mexico!”), si rigioca la carta dell’intro in midi come per “1741 the Battle of Cartagena”. Siamo comunque di fronte a un brano godibile e ben strutturato, con un refrain che non si può non imparare subito. L’autocelebrativa “Alestorm” ha un ritornello che assona con quello di “Magnetic North”, anche se i due brani hanno un tono diverso (scherzoso il primo, mentre il secondo è uno dei più seri mai composti dagli scozzesi); fra il cattivo gusto e la stupidità più assoluta “Fucked with an Anchor”. “Man the Pumps” è il mid-tempo di sostanza che non è mai mancato nei dischi degli scozzesi: il livello di epicità demenziale è buono, il trasporto però non può essere quello di “To the End of our Days” o “Sunset on the golden Age”. E alla suite finale “Treasure Island” manca qualcosa: forse strofa e refrain sono un po’ slegati, forse serviva un tocco di maestosità in più. Un momento di stanca? Esaurimento della fantasia? Eccesso di autoironia e goliardia? Forse tutto questo insieme. Sta di fatto che “No Grave but the Sea”, pur non essendo malvagio, non gira come i capitoli precedenti.
(René Urkus) Voto: 6,5/10