(Napalm Records) Chi non ha mai ritenuto gli Alter Bridge una band più metal del dovuto – si, siamo in pochi e si sono alternative metal! – che poi negli ultimi tempi si sono adagiati su dei lavori comunque buoni ma non gloriosi come alcuni di tempo fa tipo “AB III”, “Blackbird” o “Fortress”, questo “Pawns & Kings” spazzerà via perplessità e dubbi. Myles Kennedy e Mark Tremonti all’approccio di questo loro settimo album danno subito l’idea di forza e impatto, coronati dal sapere comunque intingere il tutto nelle melodie. Gli Alter Bridge si sono dati una mossa, si sono scrollati di dosso gli indugi e ripreso una linea scritturale dei pezzi più audace, proprio come qualcuno di loro aveva provato e osato a fare nei propri progetti collaterali. Appare chiaro, canzone dopo canzone, che Mark Tremonti sfrutta meno che in passato il lavoro solista e si concentra su tanti riff, armonizzazioni certo, arpeggi che potevano essere di più e contrappunti, come nel caso di “Sin After Sin” oppure qualcosa in “Season Of Promise”, oppure quando mette tutto quanto nella vasta, oltre 8’, “Fable Of The Silent Son”. Il buon Myles Kennedy lavora sodo e piuttosto bene, con la sua voce che, ma non è una cattiveria, sembra ben lavorata dalla produzione. L’impressione è che proprio il cantato sia più definito, un po’ piallato e posto grazie a un livello del mixaggio che non lo lascia mai sommergere da altro. Gli Alter Bridge sono da sempre una band forte in brani non esageratamente prolissi, con due o tre variazioni e lasciare però che melodia, il ritornello oppure il riff accattivante con assolo prendano la scena. Come negli ultimi album, anche in questo “Pawns & Kings” c’è spazio per qualcosa in più nei pezzi, ma sembrano meno pretenziosi. Ecco, semplificassero e faranno sempre la scelta migliore! “Stay” per esempio, con quel lieve, breve ma ruffiano giro di chitarra alla The Edge messo in sottofondo, “Dead Among The Living”, oppure “Season Of Promise”. Notevole “This Is War” perché è maestosa – quasi come un incipit alla Septicflesh! – garbatamente pomposa per gli standard della band ma funziona, apporta un qualcosa di nuovo. La title track poi ha un suo stile, anche grazie a Tremonti che almeno in quella canzone, di oltre 6’, trova la quadra nel suo passare da una sequela di riff all’altra.
(Alberto Vitale) Voto: 7,5/10