(AFM/Audioglobe) Davvero strana, la parabola dei Bloodbound: partiti, con l’ottimo esordio “Nosferatu”, da una letale miscela di power e NWOBHM, sono passati poi al power puro, sfornando quindi un brutto album power/thrash (“Tabula Rasa”) e assestandosi infine su coordinate power/hard rock. Un percorso che, onestamente, ho visto come un peggioramento e non come una evoluzione; e che trova, mi si permetta di dirlo, il proprio punto più basso in questo banale “In the Name of Metal”, che svolta (ancora!) verso un heavy metal fracassone e scontato, per una manciata di brani che si ascoltano in macchina e si dimenticano il giorno dopo. La titletrack nonché opener è un classico inno rude e caciarone, sospeso fra la durezza di una strofa power metal e un ritornello dalle aperture hard rock. “When Demons collide” prosegue con questo sound sporco ma allo stesso tempo positivo (anche se i cori sembrano usciti da una colonna sonora di Vangelis!), mentre “Metalheads unite” scimmiotta vistosamente i Manowar. La breve “Son of Babylon” va invece proprio nella direzione dell’hard rock cristallino fine anni ’80, “Monstermind” è il mid-tempo tritatutto alla Paragon (ma sempre con quel tocco ‘allegro’ in più), e siamo arrivati a “King of fallen Grace”, con evidenza un brano che deriva dalla prima fase della carriera della band, quando i Bloodbound suonavano power metal. Le trame neoclassiche nei solos di “Bounded by Blood” non cambiano certo la situazione generale del disco: non mi sentirei di bocciare singolarmente nessuno dei brani, ma è l’insieme che risulta banale, esageratamente variegato e talora addirittura fastidioso nella propria smaccata autocelebrazione. Sinceramente evitabile.
(Renato de Filippis) Voto: 5/10