(Svart Records) Un’ora e venti. Tempo trascorso. Mi risveglio da un torpore, con un senso di angoscia. Tutto appare cambiato. Tutto è morto. Tutto è marcio. La luce è oscura, l’aria è tetra, l’atmosfera è opprimente. Un dio oscuro, una divinità oscena, uno spirito perverso. “Dakhmandal”, quarta opera dei misteriosi finlandesi Dark Buddha Rising, quarto capitolo di una saga inneggiante alla tenebra più profonda. Un drone doom diverso, ricco di creatività compositiva, capace di materializzare una fitta nebbia, un odore di fumo denso, cose che bruciano, sensazioni che muoiono. Album criptico; Come i suoi creatori. Sei tracce dai titoli sintetici (“D”, “K”, “H”, “M”, “N”, “L”), che si sviluppano su teorie psichedeliche, su proposte analogiche, creando uno strano legame con certe sonorità anni ’70. Nonostante la maestosità di ogni singola traccia (sempre tra i 12 e 15 minuti ciascuna), nonostante il genere che fonda le sue basi sull’ossessivo e mortalmente lento, i Dark Buddha Rising sanno sviluppare la loro musica con intelligenza, senza mai cadere nell’ovvio, nel banale e nel ripetitivo. Musica che va vissuta più che ascoltata, colonna sonora di sensazioni deviate, di spiriti immortali e di varchi accessibili solo con la morte. “D” è dolce. Quasi come l’irresistibile gusto che si prova a varcare un misterioso portale verso l’ignoto. “K”, “H” che appesantiscono i toni, rendendo tutto così soffocante. “M” genera suoni diversi, quasi tribali, forze ignote che si diffondono nell’aria. Stranezze vocali su “N” . Ed infine “L”, diversa, innovativa, sperimentale, contraddittoria. Musica, concetti sonori, creazioni acustiche nelle quali -alle quali- abbandonarsi. Completamente. Senza esitazione.
(Luca Zakk) Voto: 8/10