(Peaceville) Erano una band nel 1986 dal passo incerto perché guardavano al death metal, inoltre a quei tempi i Darkthrone non si chiamavano neppure così. Poi le cose sono cambiate nel giro sei anni e poco dopoi Darkthrone sono dunque diventati l’indissolubile ed oltranzista duo: Nocturno Culto, voce, chitarra, basso e Fenriz, batterista e all’occasione voce e basso. Entrambi autori di un modo di concepire e suonare il black metal e anche di registrarlo, tale che ogni loro disco e canzone che li compone, risultano immediatamente riconducibile a loro. Ventesimo album “Astral Fortress”, dunque meglio andare sul sodo, al presente e appunto a cosa è questo nuovo album. I Darktrhone hanno attraversato una lunga e abusata fase influenzata dall’heavy e speed metal, poi da “Arctic Thunder” un ritorno amorfo verso uno stile più o meno consono al blasone stilistico dei due norvegesi. Dopo due decine di album e oltre 35 anni non ci si può attendere chissà cosa da un chitarrista che suona sempre in quella adorabile maniera pachidermica, monolitica quanto ossuta ma percorsa da melodie improvvise e con rare improvvisazioni o sconfinamenti altrove. Figurarsi poi da un batterista che anni orsono dichiarò che voleva ‘sottrarre’ al proprio sound batteristico e non aggiungere, soprattutto però che ciclicamente definisce e fissa la propria musica e le proprie intenzioni per suonarla, nonché i propri gusti, in una maniera che in un tempo poi successivo non vale più, cambiano infatti le considerazioni generali. Posto ciò, la lenta e stiracchiata epica dei Darkthone ritorna con due pezzi modulari, canonici: “Caravan Of Broken Ghosts”, opener di “Astral Fortress”, e la seguente “Impeccable Caverns Of Satan”. Se il precedente album “Eternal Hails” ha visto la presenza di una sorta di esperimento o comunque di inaspettata opera quasi psycho-avantgarde con la canzone “Lost Arcane City of Uppakra”, questo album invece esibisce di suo la malinconia andante di “Stalagmite Necklace” che al suo centro manifesta un gioco di sintetizzatori e nella parte finale sovraincisioni per un risultato più o meno desueto. Dieci minuti di puro revival in fatto di riff e pattern ritmici alla Darkthrone con “The Sea Beneath The Seas Of The Sea”, pur con un finale avantgarde, il pezzo si manifesta in maniera talmente elementare, quanto paradossalmente e inspiegabilmente lunga. “Kevorkian Times” è abbondantemente prevedibile sin dalle sue prime battute, “Kolbotn, West Of The Vast Forests” è un semplice intermezzo prima di “Eon”, un pezzo ardito tra heavy-speed e doom metal. La riflessione conclusiva è già stata scritta appena su: un sound a suo modo accattivante che tende a essere pretenzioso. Magari a causa di lungaggini, poche o saltuarie trovate sperimentali e il riprendere schemi di un tempo per farci convivere anche quelli della fase heavy. I due musicisti sembrano fermi e adagiati su una reputazione meritata ma l’istinto dice che questo suonare non è fatto per durare nel tempo.

(Alberto Vitale) Voto: 6,5/10