(Iron Bonehead) Quanto un’etichetta dice del genere musicale che categorizza? In altre parole: il death metal parla solo di morte? Beh, se valutiamo da dove è nato e quali sono i gruppi che l’hanno introdotto al mondo ormai un buon quarto di secolo fa, la risposta che si può dare non può che essere affermativa. Il death non è mai stato un genere che ha puntato solo sulla musica, anche il testo ha sempre voluto la sua parte in questo filone del metal (alla faccia di realizzazioni non sempre pulite). E nel genere in questione diciamo che l’allegria del glam o la spavalderia del power non è che c’entrino molto. Di sicuro negli anni le tematiche trattate in ambito death sono sempre state piuttosto oscure, diciamocelo, ma forse il duo ceco che andiamo qui recensendo ha preso le cose un po’ troppo alla lettera. Dopo un EP di un paio di anni fa, il gruppo sembra aver deciso di fare un deciso salto di qualità stilistico e ci sforna un concept che parla della morte vista da tutte le culture del mondo. Perché che tu sia cristiano, musulmano, ateo o adepto di qualsivoglia religione, credo o disciplina, con la morte prima o dopo ci farai i conti. Questo vogliono dirci i Death Karma nel 2015. Come spesso avviene, la copertina (bellissima e curatissima, sembra degli Slayer se facessero Death) riassume molto bene gli intenti del combo, che sforna sei tracce molto ben articolate e varie nella loro singolarità. A discapito del fatto che l’album sia per l’appunto un concept, ogni brano ha una sorta di intro orchestrale/melodica, una parte centrale marcatamente death e una parte terminale che chiude ogni segmento del disco. Ogni canzone è associata ad una nazione e ad una cultura. E quindi, ad un peculiare modo di vedere la morte e di affrontarla. “Slovakia-Journey of the Soul” parte con suoni ancestrali di organo (la tastiera è una costante ben accetta in quasi ogni traccia) per poi lasciare spazio alle ritmiche serrate e veloci fatte di doppia cassa e riff tipicamente novantiani. “Madagascar – Famadihana” da un assaggio di quella che è la varietà del disco, con ogni canzone animata da uno spirito diverso. Molto piacevoli le voci narranti che sembrano riprendere idiomi delle culture trattate nei testi. L’esecuzione fa capire che i musicisti coinvolti nel progetto se la cavano più che bene con gli strumenti, con risultati molto più che buoni su “Mexico – Chichén Itzá” e “Czech Republic – Úmrlcí Prkna”, di sicuro i due migliori episodi della release. Si riprende un po’ il fiato (si fa per dire) con “India – Towers of Silence”, strumentale dall’incedere marziale ed evocativo. L’album si chiude più che positivamente con “China – Hanging Coffins”, dedicata ovviamente ai millenari culti di sepoltura cinesi. Difficile fare paragoni. Si potrebbero scomodare i primi Dark Tranquillity ed i Nile meno estremi, ma quello che colpisce fin da subito è la freschezza della proposta, l’esecuzione tecnica e la mancanza di scontatezza nella struttura dei brani. Si spera a questo punto che i cechi ci delizieranno in futuro con altri volumi di questa ambiziosa, a testimoniare una ricerca stilistica precisa e personale. Bravi!
(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 8/10