(Lucifer Rising Records) L’occulto diventa immagine. L’ottavo sigillo va oltre. Un perverso matrimonio tra rock e cinema, tra culti e cult, tra storia e fiction, tra esoterismo e musica. L’ottavo sigillo ha un titolo emblematico: “Resurrection”. Risorgono i Death SS. Risorge una band talmente di culto da rappresentare essa stessa un genere musicale, uno stile, un’esempio, un concetto. In una superba alternanza tra colonne sonore e concetti occulti ai quali sono sempre stati fedeli, il nuovo (capo)lavoro è un vero riassunto dell’arte di Steve Sylvester, dei Death SS, di una pagina di storia culturale italiana. A partire dalla copertina disegnata dal Maestro Emanuele Taglietti. Questo è il tributo rock ad una cultura nazionale fortissima, che essa stessa appartiene al concetto di cult: cult movie, cult music, cult comics. I pezzi sono di altissima qualità, e dimostrano che questi artisti sono arrivati ad un livello qualitativo estremo su diversi concetti: composizione, esecuzione, creatività, idee. Ma anche produzione, questa volta interamente curata da Steve e Freddy. La trasversalità artistica offerta in questo full length travolge, trasportando l’ascoltatore su diversi scenari: colonne sonore per plot inesistenti, esistiti, che esisteranno. Reali o immaginari. Autentiche perle di horror rock, con geniali rielaborazioni di concetti esoterici, mitologici, “crowleiani”. Musicalmente ritengo l’album un tributo alla ultra trentennale carriera di questo act unico al mondo. Sono presenti le evoluzioni dark-tecnologiche che troviamo dal fantastico “Panic” in poi, quelle atmosfere post-nucleari, quei suoni che sembrano venire da un futuro apocalittico, ma che trovano le origini in una genesi storica fatta di orrore, paura, demoni, spiriti, rituali e tradizioni. Maledizioni. Sono presenti richiami ad altre epoche sonore, come gli anni ’80, periodo del quale i Death SS sono stati testimoni attivi. La triade iniziale mi fa impazzire. Include la già nota “The Dakest Night” e rappresenta una tortura sensoriale dove demoni antichi in chiave digitale e moderna tornano spietati ed assetati di anime. “Dionysus” migra la malvagità moderna verso temi classici, con una composizione geniale in grado di far sentire gli anni ’80 in chiave attuale, come se quell’epoca non fosse mai finita, come se si fosse solamente evoluta. “Eaters” e “Star In Sight” abbandonano il terrore digitale e si orientano su un horror rock più schietto, costruito in maniera solida sugli strumenti, sulle note, sui riff, concetti che mi fanno ripercorrere le produzioni della band precedenti agli anni duemila. Il terrore si concretizza su idee più esplicite, più tradizionali, più dirette con l’inquietante “Ogre’s Lullaby”. Maestri senza tempo, capaci di dipingere toni di nero profondo sull’oscura tela delle sensazioni umane, i Death SS non si smentiscono. Sono sempre quelli che scrissero quel pezzo angosciante, “Black Mass”, dimostrando di poter raggiungere limiti impensabili, forse mai concepiti da nessun’altra band. “Ogre’s Lullaby” è il male. Semplice descrizione per un brano che non è possibile descrivere. “Santa Muerte”, aggressiva, heavy. “The Devil’s Graal” si spinge verso territori strani. Un mix assurdo di pesantezza e concetti moderni. Una sublime teoria dell’orrore che solo Loro sono capaci di mettere insieme, una rappresentazione del male umano rinchiusa in un pezzo che è epico e gotico, rock e heavy. Dopo questi quaranta minuti arriva il pezzo geniale. Confesso che avevo paura. Mi chiedevo, attendendo l’album, se ci fosse stato un secondo capitolo di un’opera superiore come la title track dell’album precedente. Una canzone monumentale, una suite. “The 7th Seal” è fantastica, rivelò un’ulteriore dettaglio della complessa essenza chiamata Death SS, rivelò una ulteriore capacità compositiva. Capacità che viene assolutamente confermata da “The Song Of Adoration”, una marcia verso l’abisso infernale dove celestiali sonorità diventano putrefazione e accompagnano verso gli inferi, adagio, senza fretta, una lenta tortura che provoca livelli di sofferenza superiori, quasi ai confini con l’estasi, con il piacere carnale. Il percorso acustico si scatena nuovamente, ed improvvisamente, con il finale dell’album affidato a due pezzi taglienti, pesanti, che sfociano verso teorie di rock’n’roll espresse dalla conclusiva “Bad Luck”, pezzo estremamente ironico che gioca sulla fama dei Death SS, spesso dipinti come portatori di sfortuna. La vera sfortuna sarebbe ignorare questa band. Ignorare i suoi dischi. La vera sfiga è non conoscerli. Non mettere le mani su questo nuovo album. Un album che non è un vero album. “Resurrection” è un film. Un film che non è ancora stato girato. I Death SS non solo creano musica, loro materializzano esperienze sonore. Le scene del film si sviluppano attorno all’ascoltatore, il quale si trova immerso in un mondo fantastico, ciò nonostante brutalmente reale, dove la magia nera è la religione, il calore del sangue è la percezione, la deviazione umana è l’unica legge. Questa è musica che ha smesso di essere solo musica. Ed il lavoro dei Death SS non è nemmeno una colonna sonora. Qui si parla di un’arte diversa, la quale merita l’impegno di molti altri artisti, i quali girando film possono solo creare la “colonna visuale”, esaltando in maniera estrema il lavoro di questi autentici creatori di sogni, di pensieri. E di incubi.
(Luca Zakk) Voto: 8,5/10