(Nuclear Blast) In redazione ce lo diciamo in ogni riunione, cioè che la Nuclear Blast ormai non può esimersi dal presentare in catalogo qualcosa che sia metalcore. L’etichetta tedesca è in fin dei conti sempre vicina alla massa, ai gusti dei più e il metalcore è qualcosa che prende piede. Qualcosa che attecchisce ovunque, tra chi la musica l’ascolta e chi la fa. Band e musicisti che alimentano questo filone aumentano, progrediscono e soprattutto tra le nuove generazioni. Un secondo album dei Devil You Know un anno dopo “The Beauty of Destruction” è già pronto. Vincere come Best New Artist al Metal Hammer’s Golden Gods Awards dello scorso anno è una buona motivazione per ritornare subito sul mercato; sappiatelo però che i Devil You Know non sono la next big thing del metal. Metalcore si, anzi anche quello perché la necessità di rinforzare il sound con qualcosa di più duro rispetto al 2014, attraverso del modern metal, melodic metal e alternative oltre all’intervento di strutture più canoniche, sono le azioni necessarie per Howard Jones, voce, Francesco Artusato, chitarra, e gli altri due loro amici di presentarsi con qualche oncia di diversità o di progressione, se così si può dire. I Devil You Know foraggiano un metal che lo è per impatto e per impatto è metalcore, mentre per strutture è un insieme di cose che si alternano e creano una ventata di adrenalina, però le canzoni suonano vuote. Perché spesso il metalcore è vuoto! Bordate in cui basso, batteria e chitarre si doppiano, producono breakdown o blast beat a ritmo di una mitragliatrice, cori e ritornelli standard, soluzioni ora sul thrash, ora sul melodic ora sul modern metal. Insomma c’è tutto, ma non è una ricchezza compositiva, ma un disegno, un qualcosa che sembra fatto a tavolino. Dunque cosa siano oggi i Devils, se metalcore o modern metal, ha poca importanza perché questo album è d’impatto, mette in sequenza delle buone idee e rifiniture, magari con qualcosa da ‘già sentito’, ma ben accostate tra di loro. “They Bleed Red” suona moderno e pulito, forte e preciso, ma la sua sostanza, il suo vero peso passa attraverso la semi-ballad “Let the Pain Take Old”, la seguente “Master of None” e “Searching for the Sun”, le quali sono le grandi canzoni, in mezzo ad altre che lo sono solo di nome, perché sostanza non ne hanno. Non basta suonare ad alto volume, distorcere, darci dentro o fare la solita parodia del sound Made in Göteborg. Sono impressioni personali e comunque non vogliono togliere meriti a un lavoro che almeno nella sua seconda parte decolla e forse perché la band opta per un sound prettamente metal e senza la radice core, ma impegnandosi anche a creare delle canzoni che siano tali. Insomma un lavoro forse riuscito a metà.
(Alberto Vitale) Voto: 6,5/10