(autoproduzione) Un sigillo. Timbro ufficiale. Di quelli che ti fanno nei locali e che non se ne vanno nemmeno dopo due giorni. Nemmeno con la candeggina. Ma in questo è il simbolo -il sigillo appunto- degli italiani Diplomatics. Ma diciamocelo. Loro sono una punk band. Ed ecco già vi vedo, vi sento urlare: “ancora punk? Bastaaa!”. Ah si? Peccato che poi vi trovo in qui locali dove vi fanno l’infame ed indelebile timbro e dopo i concerti vi vedo ansiosi ad aspettare il DJ set finale dove pezzi dei Ramones e dei Sex Pistols vi fanno ballare, saltare, scatenare, riesumando le ultime gocce di una energia travolta dall’alcol e dal concerto al quale avete appena assistito. Ed allora esiste una dimensione spensierata dove una band come i Diplomatics ha molto senso, deve assolutamente esistere. Anzi: ne abbiamo bisogno, ci serve… perché amiamo quei quattro accordi sparati a velocità malata, quei look semplici, quella diretta schiettezza piena di sincerità. Ci serve qualcosa che ci sputi in faccia la merda quotidiana… ma del nostro quotidiano e non quello di 30-40 anni fa dove molti di noi manco erano in circolazione, forse manco fortuitamente concepiti. “Otto canzoni alla nitroglicerina che parlano di tedio provinciale e redenzione“: è questa la descrizione ufficiale la quale è dannatamente corretta, incisiva, ideale. Otto canzoni, compresse in venticinque minuti di spirito sincero, di energia pura, di musica pazzesca composta e suonata con precisione, passione, amore ed un pizzico di follia. Ogni canzone è irresistibile: il basso fa smuovere le budella. Il drumming è un treno a vapore inarrestabile: ci devi saltare sopra al volo. O resti a casa. Il vocalist è proprio bravo, ha una voce caratteristica, incisiva assolutamente non scontata per il genere. Gli arrangiamenti sono perfetti: trasuda un feeling soul e blues che rende questo punk diverso, più malinconico anche se comunque totalmente folgorato. Non mancano strumenti meno rock e più passionali (come l’armonica a bocca o i fiati) che aggiungono un tocco extra, quasi professionale, quasi distintivo… anzi… decisamente diplomatico! Poderosa la opener “No Heart, No Future”. Scatenata e decisamente pazza “Don’t Forget Me”. “Needings” aggiunge qualche dose blues, qualche ricordo southern mentre “Where I Was Born” dilaga con i suoi strumenti a fiato che creano uno scenario stupendo tra la furia e la fretta manifestata dalla canzone. Dannatamente rock punk “Who I Am”, introspettiva ed oscura “Desert Love”, un incontro sfacciato tra punk, hard rock e rock alla AC/DC su “Monkey Me”. Profonda e riflessiva, capace di rivelare i singoli skill dei membri della band la conclusiva “Don’t Let Me Go”. Sapete cosa? Questo genere “derivante dai Ramones” è eterno, immortale… ma forse non aveva più nulla di nuovo da dire. Non nel modo tradizionale almeno. Serviva una nuova interpretazione, un tocco di diplomazia appunto. Finalmente il problema è risolto!
(Luca Zakk) Voto: 8/10