(Peaceville Records) Calma. Silenzio. Dopo un’ora ed otto minuti di pazzia serve della calma. Anzi no. Serve un’altra ora con i suoi otto minuti. E poi ancora. Di nuovo. Ancora, con più attenzione. Ancora, con distacco. Ancora, in sottofondo. Ancora, in cuffia. Si passa dall’ora poco più alla decina di ore in un attimo, un salto temporale brutale e sconvolgente. Ed in quel momento di silenzio, dopo l’ennesimo ascolto, durante quella assurda pace sensoriale, io rifletto. Io valuto. Forse indago. L’avant garde balck metal non è una cosa appena nata. Anzi. Poi per i DHG, la svolta da un “normalissimo” black metal risale al 1998. Ma dopo tutti questi anni in un ruolo avant garde, dopo tutti questi anni che l’avant garde stesso è in circolazione, si può parlare ancora di… avant garde? Di un qualcosa di innovativo, oltre gli standard, diverso, capace di impostare nuovi confini? Ogni nuovo genere musicale è innovativo, prima di invecchiare. Ed ogni band che lo coltiva è geniale e rivoluzionaria, prima di registrare una fila di dischi -nel corso degli anni- i quali contribuiscono loro stessi all’invecchiamento dell’originale concetto geniale e rivoluzionario. I DHG sono celebrati. Osannati. Sono una specie di mito per il coraggio, la diversità, la rivoluzione. Ma a differenza di altri act, dai DHG ci si aspetta sempre un esempio, l’esplorazione, la prima parola della prossima pagina del prossimo libro di storia. E’ con queste emozioni miste che mi avvicino a “A Umbra Omega, lo faccio in però maniera cinica, ignorando ogni passato o ogni altra band impegnata in generi oscuri ed alternativi. Sono del parere che questa innovazione deve essere capace di comunicare qualcosa. Deve essere capace di parlare… e vi confesso che dopo oltre una decina di ascolti io -ormai- non sento più parlare nessuno: qui è tutto un grido, sono solo urla, un boato fragoroso, una devastazione, puro caos, pura pazzia. Non so come diavolo sia possibile, ma questo disco, questo “A Umbra Omega” è oltre, è più avanti, è contorto, ultra tecnico, assurdo, complesso, variegato, imprevedibile… ma schifosamente magnetico! Parole come “catchy” o “facile da assimilare” sono totalmente errate, impossibili da applicare, ma già dal terzo ascolto ci sono passaggi che diventano familiari, che fanno godere, che si fanno attendere, che appartengono alla musica creata -ed ascoltata- per piacere! La cosa stupenda è che si tratta di momenti in mezzo ad altri momenti, in una situazione instabile nella quale il momento che produce piacere poi finisce per stancare e dare spazio a quello precedente, o a quello successivo, o alla sua metamorfosi nella mente dell’ascoltatore. Un album registrato perfettamente, con ogni strumento esaltato in forma erotica (il basso, le chitarre, il sassofono….). Cinque tracce (più intro) mostruose, eterne (mai sotto gli undici minuti, spesso vicine al quarto d’ora), imponenti, perverse, mai lineari, ricche di sorprese, cambi di atmosfera, di tempo, di riff, di voce, di strumento. Un dipinto sonoro surreale geniale e privo di rispetto. Tracce come “God Protocol Axiom” o “Architect Of Darkness” o “Blue Moon Duel” sono letali, ciascuna contenente materiale che una qualsiasi altra band userebbe per scriverci un album intero, o forse più. Un filo conduttore pazzo che non abbandona mai, tanto che l’album diventa una sola canzone, una sola esperienza, un solo film mentale dove i confini tra vita e morte, salute e malattia, equilibrio e pazzia sono impalpabili sfumature di grigio in mezzo a residui neri di tinte oscure sporche, sbiadite ed opache. Vicotinik ha dichiarato di avere un forte interesse per l’arte che scatena le emozioni. Ha sempre detto che a lui non importa se la gente odia la sua musica: basta che si tratti di odio vero, forte e motivato… sentimenti di qualsiasi tipo purché scatenati dalla musica che lui compone. E quell’essere spietato con i suoi compagni c’è riuscito ancora, creando qualcosa che colpisce direttamente -con molta violenza- la stessa psiche umana. Pura superbia artistica.
(Luca Zakk) Voto: 10/10