(Avantgarde Music) Dopo l’ultimo buon lavoro, “The Sachem’s Tales” del 2017 (recensione qui ), torna la band l’atmospheric black degli americani Dzö-Nga, con una line up che ora vede l’aggiunta di Ray King al basso, oltre allo storico duo composto dal mastermind Cryvas e dalla female vocals Grushenka Ødegård. Il tempo trascorso è stato tutto impegnato nella creazione di questo nuovo terzo disco, concepito adattando letteratura a musica, prendendo ispirazione da un’opera del poeta e scrittore americano dell’800, Henry Wadsworth Longfellow, ed in particolare dal suo poema epico “The Song of Hiawatha” il quale si basa sul folklore del popolo indiano Ojibwe (chiamati impropriamente dai bianchi Chippewa) che viveva nell’odierno Michigan e sulle coste settentrionali del Lago Superiore e del lago Huron. Notevole il passo avanti compositivo rispetto al lavoro precedente: molta più melodia, sublimi tastiere, un uso delle due voci estremamente coinvolgente, tra il black sinfonico e quello etnico, molto prog, molto metal, sempre alla ricerca di una divagazione interessante e ricca di poderose progressioni. “The Song of Hiawatha” rivela subito l’impostazione della band in questo nuovo decennio: momenti introspettivi dal gusto folk, aperture sinfoniche ricche di strumenti etnici, fino ad un black tirato ed evocativo, con una linea melodica che materializza un’atmosfera dalla quale emerge la bellissima voce di Grushenka. Stupenda “Heart of Coal”: un death melodico pungente che si lascia andare con lasciva brutalità verso un black più lineare aperto a lick di chitarra thrash, prima di virare verso melodie intense, ancora una volta dal sapore etnico-atmosferico capaci di supportare groove e digressioni marcatamente progressive, molto musicali, notevolmente intriganti. Più tirata anche nei momenti folk o symphonic “Flames in the Sky”, trionfante ed oscura “A Soul to Burn”, un brano che ricorda certe idee dei Dimmu Borgir affiancate ad altre favolose espressioni di folk progressivo. Lenta, ipnotica, sognante e vagamente drammatica “Starlight, Moonlight, Firelight” un brano senza distorsioni, con chitarra acustica e violini che accompagnano con delicatezza verso la lunga e conclusiva “The Death of Minnehaha”, un pezzo ricco di variazioni, idee sconvolgenti, dominato da violenza espressa con riff taglienti e doppia cassa, ma sempre aperto ad atmosfere che guardano lontano, verso vasti spazi verdi, verso la natura, verso il mondo, verso gli astri. Anche la registrazione del disco ha seguito criteri originali, tanto da essere stata fatta in una vecchia fattoria del 18° secolo nei boschi del Connecticut, per poi arrivare alle mani Øystein G. Brun (Borknagar) per il mix e del noto Dan Swanö per il master. Album suggestivo, coinvolgente, attraente, a tratti sensuale ma anche grintoso e violento. Un bilanciamento di opposti molto ben concepito e geniale.
(Luca Zakk) Voto: 8/10