(Spinefarm/Audioglobe) Sono passati ormai molti anni (se non sbaglio addirittura undici) da quando gli Ensiferum ‘esplosero’ (quasi in senso letterale!) sul mercato con quel debut autotitolato che ha sancito, almeno a parere di chi scrive, la nascita di un nuovo genere musicale, una letale miscela di folk, power e death che da più parti è stata definita ‘battle metal’. Undici anni sono tanti e le cose cambiano: dopo l’eccezionale conferma di “Iron”, la band non ha saputo più imporsi (complice, sicuramente, l’abbandono di Jari Mäenpää) ed ha sfornato prodotti godibili ma mai eccelsi, lasciandosi ‘superare’ da altre formazioni che hanno seguito la strada su cui i nostri sono stati pionieri (primi fra tutti i Turisas). Finalmente qualcosa è cambiato e i nostri risalgono la china: “Unsung Heroes” è sicuramente meglio di “From afar”. È chiaro però che la battaglia è finita: nel disco abbondano ormai i mid-tempo bathoriani, i toni restano epici ma in qualche modo ‘morbidi’, i finlandesi non puntano quasi mai sulla velocità – e quando lo fanno, con “Retribution shall be mine”, i risultati sono modesti. Oggi la loro è un’epica totalmente diversa da quella degli esordi: apprezzabile per tanti altri motivi, ma lontana dalla furia primordiale di “Hero in a Dream”, “Iron” o “Lai Lai Hei”. Veniamo al nuovo disco. “In my Sword I trust” è un’ottima partenza: epica, arrembante, con un ritornello semplice e immediato; solo lo screaming di Lindroos appare un po’ sottotono, a tratti sforzato. La componente folk nella più lenta titletrack è maggiormente accentuata, mentre il singolo, come spesso accade per le formazioni metal poco abituate alle dinamiche commerciali, è sicuramente il brano più diretto, ma forse anche il meno incisivo di tutto il disco. Folk puro e voce femminile in “Celestial Bound” (che ricorda molto “Tears” dal benemerito e già citato “Iron”): “Star Queen” ne riprende l’atmosfera in una versione più metal. Con “Pohjola” i nostri si concedono il brano interamente in finlandese, pomposo ma comunque quadrato come dal tipico stile della band. “Last Breath” è il terzo ‘lento’ in scaletta, in questo caso acustico, e forse non se ne sentiva un bisogno sconfinato. Arriviamo così ai 17 minuti di “Passion, Proof, Power”, dove le consuete strutture vengono animate, con successo, da alcuni spunti progressive (!), naturalmente limitati ad alcuni excursus strumentali. Carne al fuoco ce n’è molta e chi scrive si sente di premiare questo disco, come se fosse un buon augurio, con un voto forse un minimo più alto di quello che, oggettivamente, meriterebbe.

(Renato de Filippis) Voto: 7,5/10