(Argonauta Records) Forse una delle realtà più interessanti udite negli ultimi tempi, almeno tra le cose che passano in redazione e realizzate in Italia. Dopo un EP di un certo valore, la band lombarda arriva alla dimensione dell’album. In un arco di tempo ben definito i Filth In My Garage sviluppano ulteriormente quel loro essere crossover, cioè di mostrare nelle pieghe del proprio comporre esiti post hardcore, math rock, noise e via dicendo. L’insieme delle cose sonore è tutto racchiuso in “Songs from the Lowest Floor”, nel quale l’opener “Stampede” offre un incipit da garage rock – il garage, quello del loro nome… – qualcosa che andrebbe bene in un film di Tarantino o di Rodriguez e anticamera per il punk di “Black and Blue”, la canzone senza fronzoli. Le torture mentali, l’angoscia, l’alienazione dell’oggi erompono invece in “Devil’s Shape”, canzone che rientra nei ranghi e nella continuità dello stile dei FIMG. Ancora un qualcosa di soffuso, epico e mentale insieme con “Red Door”, almeno nel suo inizio, visto che poi i quasi nove minuti totali vedono un nuovo giro verso più soluzioni – ci sentirete dentro persino un modo di fare alla Voivod – che abbracciano più registri. La band in questo album provvede a concatenare un discorso sonoro passando da fasi quieti ad altre più spinte o comunque veloci e sempre attraverso un modo di fare naturale, consequenziale e continuo. Piacevole il fatto che spesso si odono andature e riff che formano scorci epici o comunque flussi sonori che hanno un loro senso, una melodia, un’esistenza che non è solamente un atto estremo. In tutto ciò gioca discorso delle durate, l’album infatti è costituito da canzoni più o meno brevi e da altre dalla durata importante. Vanno avanti i Filth In My Garage, perché loro camminano «abbastanza a lungo per vendere la nostra fede agli altri, nella nostra strada solitaria, scrivendo poesia sulla sabbia di un mondo desertico».
(Alberto Vitale) Voto: 8/10