(Nuclear Blast Records) Sono passati già cinque anni dall’uscita di “Veleno” (recensione QUI), penultimo album dei Fleshgod Apocalypse; nel frattempo c’è stata una pandemia che ha messo in ginocchio l’intero pianeta, mentre Francesco Paoli, lider maximo della band è stato vittima di un serio incidente in montagna, cosa che ha in qualche modo influenzato il processo compositivo di quest’ultima release, che possiamo definire come un’ulteriore evoluzione delle soluzione melodiche e catchy che già trasparivano su “Veleno”, con orchestrazioni sempre più in primo piano; tra le altre cose, ora la voce della bravissima Veronica Bordacchini assume un ruolo predominante, non limitandosi solo a gorgheggi operistici, ma esprimendosi liberamente su registri insoliti ed affascinanti. Le sonorità si smarcano in parte dal death metal, evolvendosi sempre più verso territori cari ai Therion, mentre certe melodie non sono lontane da certe cose degli Epica, cosa non casuale, visto che alla consolle troviamo il rinomato produttore Jacob Hansen. La brutalità comunque è dispensata a piene mani, sia per quanto riguarda il potente growl di Francesco, sia nel drumming devastante di Eugene Rybachenko, mentre mi ha lasciato un po’ perplesso l’uso delle chitarre, in grado di prodursi in ottimi assoli ma lasciate un po’ in disparte nel riffing, preferendo invece un sound più organico che le relega quasi ad elemento orchestrale. Non mancano influenze insolite per i canoni della band, come gli inserti nu/industrial di “Bloodclock”, mentre melodie pop caratterizzano “I Can Never Die”, con un refrain che mi ricorda molto “It’s A Sin” dei Pet Shop Boys. Un album che rifugge da ogni catalogazione, muovendosi in svariate direzioni pur mantenendo marchiato a fuoco il trademark forgiato in questi anni.

(Matteo Piotto) Voto: 8/10