(Grau) Senza fretta. Da quant’è? Forse dieci giorni che ascolto solo questo disco. Un funerale non corre veloce. E alla morte, se permettete, lascio il suo ritmo, la deviata misura del tempo. Una lancetta tagliente come una lama, che gira su un orologio che miete inesorabilmente ogni secondo di una vita che si consuma. Un album dannatamente complesso. Impegnativo e complesso. Complesso come la comprensione di una preghiera ad un dio ignoto, invisibile, inventato. Fede. E’ quanto serve per abbandonarsi alle tetre liturgie di questo maestoso disco dei Norvegesi Funeral. Settantadue minuti di riff monumentali, circondati da orchestrazioni deliziosamente tetre ed eroticamente travolgenti. Su tutto troneggia la notevole voce di Sindre Nedland, il nuovo oratore, portatore di sventure e compianto. Un album oscenamente lento. Triste. Puro culto della decadenza. Un’opera nel nome degli angeli caduti, delle vite estirpate, delle esistenze nascoste dalla più tetra delle eclissi. Un presagio. Il lento cammino verso l’ultimo rito, l’ultimo saluto. I sette pezzi che compongono questa cerimonia dissacrante sono impegnativi. Mai sotto i sette minuti, spesso ben al di sopra dei dieci, queste preghiere deviate, sono create per essere unite. L’effetto più tetro si intensifica nell’insieme dell’album, ogni canzone come un singolo chiodo che chiude una bara. La opener “Burning With Regret”, è una marcia funebre intensa, dove Sindre si esibisce con un voce pulita e calda, alternata ad un growl intenso, che si scatena disperdendo tristezza e sofferenza interiore. Atmosfera apocalittica ed una terribile lentezza sono le componenti di “Hate”, il pezzo dove, forse, più si può godere delle sublimi orchestrazioni. Angosciante il motivo principale di “Song Of The Knell”. Assolutamente imperdibile “From The Orchestral Grave”, capace di alternare momenti di assoluta profondità emotiva, con riff devastanti e voci tenore, un pezzo dentro il quale lasciarsi andare, per perdersi, in cerca di quella piacevole sensazione di annullamento totale. Anche la successiva “Making The World My Tomb” regala sensazioni assurde, un continuo alimentare di incubi martellati dai taglienti riff e dalle poetiche melodie. L’album chiude con il pezzo più lungo in assoluto, il quale propone un inquietante coro, per poi addentrarsi nella profondità compositiva della band, passando ancora una volta attraverso lenti rituali di morte, trionfanti melodie, e riff pesanti come lapidi. Un album che mi ricorda, per certi aspetti, un certo livello della fantasia dei Therion, mescolato con la perversa creatività dei Tiamat. Un disco che va oltre il doom. Un’opera che riesce ad essere meravigliosamente nuova e geniale, mantenendo quella sensazione di colonna sonora di un rito funebre. Immagini di decadenza. Statue corrose dalla pioggia, rese grigie dal tempo. Un oscena gargolla deforme, che dall’alto della cattedrale osserva ancora una volta, il lento svolgersi del più antico dei rituali, la più triste delle cerimonie, l’ultimo funerale.
(Luca Zakk) Voto: 9/10