(ROAR – RPM) Nuovo album per gli inossidabili Grave Digger, in circolazione ormai da quarantacinque anni, essendo nati nel 1980, con il debutto “Heavy Metal Breakdown” che risale al 1984, ben quarantuno anni or sono, una carriera che ha avuto il suo picco negli anni ’90, con la svolta verso un power più epico e ricco di richiami storici e medievali. Ancora oggi ritengo “Tunes Of War” uno dei dischi metal più belli mai usciti, seguito dall’altrettanto coinvolgente “Knights Of The Cross”, entrambi picchi inarrivabili che la band tedesca ha tentato di rinverdirne i fasti con le ultime due release “Symbol of Eternity” e “Fields Of Blood” (recensione qui  e qui). “Bone Collector” rappresenta invece un ritorno alle origini, ad un sound più grezzo e viscerale, al punto di essere il primo album della lunga carriera della band ad essere totalmente privo di qualsivoglia inserto di tastiera. Un album potente, orientato sulla chitarra dell’abile nuovo acquisto Tobias Kersting, il quale aveva già messo in luce le sue doti da shredder in seno agli Orden Ogan. Si parte subito spediti con la title track, con un classico riff quadrato e crucco quanto basta, sostenuto da un truculento tappeto di doppia cassa, con l’inconfondibile voce ruvida di Chris Boltendahl che svetta in un ritornello semplice quanto efficace. La velocità non scende con “The Rich, The Poor, The Dying”, dal piglio decisamente aggressivo ma impreziosita da ottimi assoli di chitarra. Un basso arrembante apre “Kingdom Of Skulls”, mid tempo anthemico nelle strofe, veloce e tagliente nel refrain, mentre “The Devils Serenade” è uno dei migliori episodi dell’intero disco, con la sua perfetta fusione tra melodia e ruvidità, per un brano di scuola Accept. È un mood ottantiano quello emanato anche da “Killing is My Pleasure”, pezzo dal riffing portante old school ed un ritornello tra i più coinvolgenti dell’intero platter, al contrario di “Mirror Of Hate”, accattivante a livello strumentale, varia anche dal punto di vista vocale con Chris che spazia dal cantato melodico a parti addirittura in growl, ma con un risultato finale non mi coinvolge più di tanto. Le atmosfere si fanno decisamente più oscure con “Riders Of Doom”, tra chitarre sulfuree ed un groove assassino, mentre “Made Of Madness”, al contrario, riporta la velocità a livelli vicini allo speed metal. Arriviamo finalmente a “Graveyard Kings”, il mio pezzo preferito, figlio diretto di quel capolavoro di “The Grave Dancer”, con quell’andatura pesante e monolitica sotto la quale non si può non scapocciare selvaggiamente. “Forever Evil & Buried Alive” è un altro esempio di metallo teutonico rovente e affilato, mentre la conclusiva “Whispers Of The Damned” parte come una semi ballad, per poi svilupparsi in intrecci strumentali davvero degni di nota, con ottime partiture vocali. Una scelta di tornare alle origini che secondo me ha pagato, in quanto non aveva senso continuare ad attingere da una vena creativa che si stava inesorabilmente esaurendo. Mancano forse i classici cori da sing along che caratterizzavano i momenti più epici, ma sarebbe stata una forzatura inserirli in queste nuove composizioni, decisamente più quadrate e old school.

(Matteo Piotto) Voto: 8,5/10