(EMI) Il mitico Steve Harris. Mente diabolica di quella creatura longeva, e forse immortale, chiamata Iron Maiden. Tranne la partecipazione sull’album della figlia del 2008, Steve è sempre stato impegnato solamente con gli Iron Maiden. Steve Harris è gli Iron Maiden. Legame inscindibile, patto di sangue. Icone del rock come lui sono l’anima della band che hanno creato. E nell’anno dell’ipotetica fine del mondo, anche lui non ha resistito alla tentazione di provare strade diverse. Di respirare aria nuova. Di vedere cosa si sente ad essere “semplicemente” Steve Harris, e non Iron Maiden. E’ arrivato l’album solista. La sua creatura, sotto il segno del suo nome. Un cantante e un chitarrista, nel mondo del rock, possono avere vita facile nella carriera solista. Un bassista, invece, per il ruolo che rappresenta, non va certo incontro ad un progetto facile. E’ difficile far suonare un album in modo personale, dare il carattere del bassista e non semplicemente il nome al progetto. Steve ci è riuscito. Le linee di basso di questo album sono stupende. Dominano, senza essere invasive. Si sentono, senza occultare il resto degli strumenti. Si sente il caratteristico lavoro delle sue dita sulle quattro corde. Quel suono metallico che solo lui è in grado di sprigionare. Non so come ci sia riuscito, ma questo disco suona decisamente “Steve Harris”. La musica proposta è un rock complesso, mai scontato. Sicuramente lontano dall’heavy metal per il quale l’artista è famoso, ma il risultato è di grande qualità, di marcato impatto. La dinamica delle ritmiche e semplicemente irresistibile, offrendo un rock energico, potente, con uno sguardo al metal ed uno a sonorità classiche. I musicisti coinvolti non si fanno notare per caratteristiche particolari, ma sanno interpretare in maniera eccellente le idee del creativo genio ingelse. Esiste però un problema. La voce. Il cantante scelto, Richard Taylor è sicuramente valido, ma gli manca quella grinta della quale la musica sulla quale canta avrebbe bisogno. I suoi acuti sono modesti, quasi “tagliati”. La sua potenza è scadente. Manca sempre qualcosa. Un amplesso sonoro mai completato. Un cantante probabilmente adatto per generi molto più soft, più pop. Mi riesce impossibile non pensare che un Mark Boals, un Doogie White, o forse anche Jørn Lande avrebbero reso questo album un assoluto capolavoro. Queste voci avrebbero dato una grinta maggiore al lavoro, il quale proprio dal punto di vista vocale manca di quel mordente, di quella carica irresistibile che Steve è in grado di trasmettere, specialmente nelle esibizioni dal vivo. I pezzi sono tutti molto belli. Non ritengo di averne di preferiti, in quanto la qualità è sempre molto alta. Sicuramente “This Is My God”, “Us Against The World”, “Judas” e “Eyes Of The Young” possono essere i capitoli più significativi, ma veramente si tratta di un album completo e valido dalla prima all’ultima traccia. Non oso pensare come avrebbe potuto suonare con Bruce alla voce. Ma in questo caso, torniamo alla prima pagina. Alle origini. Alla vergine di ferro. E questo non sarebbe più l’album di Steve.
(Luca Zakk) Voto: 7,5/10