(Cherry Red Rec.) Nel 1969 una navicella spaziale partì da Londra con un nutrito equipaggio verso il cielo, poi superato, per approdare in un giro interminabile attraverso il cosmo intero. Per mezzo di strumenti manovrati con tecniche raffinate e d’avanguardia l’equipaggio produsse una mappatura sonora dell’universo. Tale studio venne aggiornato nel corso degli anni attraverso dettagliati resoconti: il primo, del 1970, si chiamava “Hawkwind”, proprio come la navicella e l’equipaggio che la popolava, poi ne vennero come “In Search of Space”, “Doremi Fasol Latido”, “Quark Strangeness and Charm” e poi ancora altri nel corso di oltre cinque decadi, arrivando dunque al Nuovo Millennio, anch’esso investito da una sontuosa serie di dissertazioni sull’immenso nero stellato che circonda questo pianeta. Nel corso degli anni l’equipaggio assistette a diversi avvicendamenti (ne hanno fatto parte il padre di tutti i rocker, la buon’anima di Lemmy e l’istrionico Nick Turner, il poeta del violino Simon House, e altri ancora), i quali però non hanno mai deviato la rotta della navicella Hawkwind. Il falco del vento ha continuato a veleggiare nel cosmo, affrontandolo e diventandone esso stesso una sua dimensione. Ascoltare un album degli Hawkwind significa questo: entrare nel cosmo. È una porta che si apre, la si varca ed ecco stelle, nebulose e pianeti, oltre a creature e personaggi che si mostrano. È un viaggio non diverso da quello che l’astronauta David Bowman compie alla fine del film “2001 Odissea dello Spazio”. Quel viaggio, però, è parzialmente autoconclusivo, mentre David Brock (ultimo superstite di quell’equipaggio inziale, e si badi che è un uomo classe 1941) continua a viaggiare oltre. “The Machine Stops” è l’ennesimo rapporto stellare, segnato dalla regia testuale di una novella dello scrittore di fantascienza E.M. Forster, ma rivista secondo I codici formali ed espressivi degli Hawkwind, e quindi innestata in un tessuto sonoro inconfondibile. Signore e signori, “The Machine Stops” è al 100% un album Hawkwind. Tutto è presente e comunica (suona) dal cosmo più profondo attraverso le stesse modalità di sempre e con un’altalena di atmosfere, melodie, divagazioni insuperabili e smaltate, di bellezza ed epica spaziale. “Solitary Man” ha quell’andatura alla Django Reinhardt, pallino di Brock, mentre “All Hail the Machine” è qualcosa tra il rock e il metal, ma trasmesso da epoche spaziali arcaiche. C’è anche altro in questo album, ma non si descrive la bellezza del cosmo e le sue indotte visioni in poche parole. Resta il fatto che l’8 luglio la navicella atterrerà in Veneto, per un miracolo atteso da anni.
(Alberto Vitale) Voto: 8,5/10