(Epic) Attendevo con ansia questa nuova uscita targata Judas Priest. Dopo che, nel 2011 K.K. Downing ha deciso di abbandonare la band, sostituito dall’ex ascia dei Dirty Deeds Richie Faulkner, sembrava che la fine del gruppo fosse vicina, ipotesi rafforzata dalla voce che avevano reclutato il giovane axe man per portare a termine quello che sarebbe stato il tour d’addio, gettando nello sconforto molti fans, me compreso. Fortunatamente l”innesto del nuovo chitarrista sembra aver portato una ventata d’aria fresca e positività, tanto da indurre la band a comporre questo lavoro. Partiamo proprio dall’ultimo arrivato: sapevo delle capacità tecniche di Faulkner, ma sostituire una leggenda dell’heavy metal come K.K. Downing è un’impresa titanica, non tanto in fase esecutiva, ma in quella compositiva; sono rimasto piacevolmente sorpreso nello constatare che ha preso parte attivamente alla stesura dei brani, mettendoci personalità ma senza snaturare il sound, sfoggiando uno stile non molto diverso da quello di K.K., imperniato di blues e influenze hendrixiane e che crea quel magico contrasto con il modo di suonare più pulito di Glenn Tipton, caratterizzato da partiture molto intricate senza mai sacrificare la melodia. La voce di Rob Halford è in forma smagliante e offre una prestazione maiuscola per tutta la durata dell’album. Intendiamoci: a sessantaquattro anni suonati è arduo cimentarsi in acuti come faceva in giovinezza, quindi ha saggiamente optato per toni medi, guadagnandoci dal punto di vista interpretativo relegando quelli più alti a brevi episodi. Il disco può essere considerato come un viaggio a ritroso nella storia della band, mettendo in mostra le diverse sfaccettature dell’inconfondibile sound che li caratterizza da quarant’anni senza cadere nell’auto celebrazione. L’opener “Dragonaught” è un mid tempo quadrato, dal feeling oscuro che sembra essere uscito dalle sessioni di “Defenders Of the Faith”; da anni non sentivo assoli così ispirati, quelle twin guitars che hanno fatto scuola. La title track ha un riff che mi ricorda da vicino quello di “Hell Patrol” riletto nello stile di “Stained Class”. Il brano è immediato e si stampa in testa al, primo ascolto, non a caso è stato scelto come singolo apri pista. Le sonorità si fanno più epiche in “Halls Of Valhalla”, dove Halford rispolvera il suo leggendario screaming. Anche in questo caso gli assoli sono da brividi. Ad ogni ascolto ho la pelle d’oca. “Sword Of Damocles” è un po’ atipica, guidata da chitarre armonizzate che ricordano molto gli Iron Maiden più folk oriented (Quelli di Piece Of Mind) mescolati col tipico sound dei Judas Priest all’epoca di “Sin After Sin”. “March Of The Damned” riporta ad atmosfere oscure di “Sad Wings Of Destiny”, con riffs oscuri e pesanti di scuola Black Sabbath. Va detto che songs hanno una propria personalità e gli album passati a cui mi riferisco li uso per far capire il feeling sprigionato dal brano in questione, anche se in alcuni casi l’auto citazione fa capolino, come su “Down In Flames”, simile nel riffing a “Grinder”. Un dolce arpeggio accompagna la voce di Halford in apertura di “Hell & Back”, pezzo che si sviluppa in un riff stoppato molto pesante ed ipnotico e parti vocali cantilenate, quasi una sinistra ninna nanna alquanto inquietante. Atmosfere alla “Sad Wings Of Destiny” tornano a fare capolino su “Cold Blooded” con l’intro di chitarra che rimanda a quello di “Victim Of Changes” per poi evolversi in un buon mid tempo cadenzato e in un’accelerazione finale sulla quale si stagliano assoli vorticosi. I ritmi si fanno più sostenuti in “Metalizer”, caratterizzata da un riff spacca ossa sostenuto dal mostruoso drumming del poderoso Scott Travis. “Crossfire” è uno dei brani che preferisco, dalle sonorità spiccatamente blues, fino a che l’acuto di Rob introduce il cambio di tempo che precede una pregevole armonizzazione di chitarre che riportano al riff iniziale. “Secrets Of The Dead” è aperta da un cupo arpeggio che si evolve in sonorità oscure, ponte ideale tra “Touch Of Evil” e “Beyond The Realms Of Death”. “Battle Cry” è un mid tempo quadrato e potente sulla scia di “One Shot Of Glory”, caratterizzata da un rallentamento centrale e da ripartenze fulminanti. La conclusiva “Beginning Of The End” è un malinconico blues acustico, un lento come solo i Priest riescono a fare. La copia in mio possesso contiene anche un bonus cd di cinque brani: “Snakebite”, dalle sonorità più Americane alla “Point Of Entry”; “Tears Of Blood”, decisamente più energica e veloce che non avrebbe sfigurato in “Screaming For Vengeance”. Un riff stoppato dal sapore moderno nelle sonorità, ma hard rock nell’animo, apre “Creatures”, brano anch’esso accostabile a “Point Of Entry”. “Bring It On” ricalca un po’ le sonorità del precedente pezzo, godibile ma non memorabile. La chiusura spetta alla dolce “Never Forget”, dominata dalle chitarre acustiche e dalla voce calda di Rob Halford. Da applausi l’assolo finale: melodico e drammatico che sembra uscito dalla penna di Brian May. Un album che mette in mostra tutta la classe cristallina della band e che molto ha da insegnare alle nuove leve. The Priest is back!
(Matteo Piotto) Voto: 9/10