(Peaceville) Cominciai a seguire le peripezie degli svedesi con la pietra miliare “Viva Emptiness”; mi ricordo ancora quanto ammaliante fosse la copertina di Smith, capace di ricalcare appieno la doppia anima decadente e al tempo stesso rabbiosa dei Katatonia. Da lì in avanti (e indietro, visto che recuperai in breve l’intera discografia) fu un susseguirsi di sorprese: i primi album decisamente pesanti e oscuri, la sterzata sempre più Rock e melodica dei lavori a seguire. Ma un unico filo conduttore, ossia una passione sconcertante per tutte le facce di un unico sentimento, quel sehnsucht che solo la lingua italiana sa tradurre appieno con l’equivalente struggimento. Quasi che i nostri abbiano voluto fin dall’inizio creare l’intera paletta dei colori di quell’immensa e multiforme emozione pocanzi nominata. A quattro anni di distanza arriva finalmente il successore dell’acclamato “Dead End Kings” e credetemi se vi dico che è di sicuro il disco più difficile che i Katatonia abbiano composto. Non mi riferisco tanto alla complessità delle canzoni, anzi: le 12 canzoni dell’opera scorrono semplici e senza particolari carambole sonore. No, quello che stupisce è la grande differenza di stile con l’opera precedente. Ascoltare la discografia degli svedesi è come ammirare un balletto solista. Non sai dove ti porterà il ballerino, né quale sarà il suo prossimo passo; sai solo che il tutto è collegato a formare un ampio e maestoso unico movimento. Qui però si fatica per la prima volta a trovare una continuità con il lavoro precedente. L’opener “Takeover” sembra ridarci un gruppo più propositivo e ottimista verso la vita, con un groove dal sapore decisamente Rock ma che a tratti si inasprisce fino a toccare il Metal più leggero. Le chitarre si sono fatte più delicate ma nello stesso tempo più dirette, mentre il cantante arpeggia con lo strumento che ha dietro la lingua come mai prima d’ora confermando, se mai ce ne fosse stato il bisogno, una carriera davvero sorprendente. Ci sono brevi momenti un po’ più duri, ma si parla di alcune intro di un paio di canzoni, niente di più. Chi sperava in un ritorno alle origini dei Katatonia si ascolti pure i primi lavori perché questa è la definitiva prova che la band ha voluto distanziarsi sempre di più da quanto fatto nella prima parte della sua carriera. Mi spiego comunque sempre di più perché il cantante adori i Tool, reminiscenza onnipresente almeno nella prima parte del lavoro. Tutto l’album è un susseguirsi di emozioni forti ma mai negative, quasi che dopo una carriera passata sotto la pioggia, oggi si sia visto per la prima volta un pallido sole che albeggia. Diciamo pure che questo è senz’altro il disco Rock dei Katatonia, il loro lavoro più lineare e diretto e nello stesso tempo quello che più di tutti mi ha stupito. Non c’è un pezzo sopra gli altri, semplicemente mi vien voglia di riascoltare ancora e ancora l’intero album, punto. Nonostante quanto detto finora, non posso che avere da oggi una ragione in più per idolatrare questo gruppo. Inspiegabilmente sublimi.
(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 10/10