(Karisma Records) Quando giri per Bergen, in Norvegia, respiri una strana atmosfera. Non importa in quale stagione, non importa se sotto una pioggia estiva alternata dal brillante sole del nord, o una timida neve invernale che incorona le alture che abbracciano la città e che si affacciano sul mare, sul fiordo. L’atmosfera è allegra, giovane, festosa, amichevole. Ma l’allegria non dura in eterno, la gioventù è sfuggevole, la festa finisce e l’amicizia, molto probabilmente, è un’illusione. Cammini di notte per le vie di Bergen, dopo l’atmosfera eccitante del locale, del club o del concerto, quando i giovani hanno smesso di vagare ridendo in quanto l’evento, la festa, il party è ormai finito. Ti trovi solo. C’è il silenzio. Magia. Qualche auto passa lontano. Senti l’eco dei tuoi passi, un’eco che arriva fino al mare e che viene assorbito dal fiordo. Sei solo. La luce della luna riflette timida sulle montagne imbiancate, un aura eterea che affascina e destabilizza. L’amicizia non ha senso. La solitudine è una conquista ambita, ma è minimale. Ridotta all’osso. In mezzora di passeggiata solitaria, attraverso i saliscendi delle piccole vie, di molo in molo, guardando lontano verso l’infinito labirinto del fiordo, rivedi tutta la tua vita, tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi valori. È un totale controsenso. Euforia espressa con una eccitante malinconia. Luce che splende nel totale buio. Storia che, con le unghie graffia la modernità, pretendendo il suo spazio. Tristezza che riempie il cuore di gioia. L’odore del mare, della città, del pesce, della natura, della montagna. Tra le note dei Krakow lo stoner è ormai scomparso, ma paradossalmente tutto diventa stranamente vintage, stranamente 70s. Tutto è psichedelico, ma non ha nulla a che vedere con “Amaran” (recensione qui). Tutto è decadente, ma assurdamente luccicante, brillante, luminoso… raggi di stella che accecano durante un tetro viaggio cosmico. Lo sperimentale diventa fruibile, eccitante, ma contorto e progressivo (cosa subdolamente anticipata su brani come “Atom” nel precedente “Amaran”). “Black Wandering Sun” è costruita su un main riff che sarà un demone che avidamente si impossesserà della vostra psiche: contorta, provocante, nervosa, spaziale, confusa e coronata dall’assolo di Phil Campbell (Motörhead). “Sirens” è sensuale. Ossessiva. Destabilizzante. Ed offre una linea vocale da sogno, tra il glorioso, il dark wave ed un qualcosa anni luce lontano, mentre contro-tempi e labirinti ritmici danno spazio a trame che evolvono dentro fantasie superlative. “The Stranger” è invitante ma anche snervante. Genera sogno, sospensione, quasi un climax nervoso dominato da un senso di irrequietudine. Genera piacevole nostalgia, creando ansia. Accarezza ma graffia. È prog. È pop. È dark. Si ispira agli Hawkwind, rifiutando di avere similitudini con gli Hawkwind. Con un finale che è una interruzione incoerentemente orgasmica. “From Fire, From Stone” echeggia al post metal in maniera deliziosa e teatrale; quasi sciamanica, con una progressione melodica e ritmica descrivibile solo con teorie di pura ipnosi. La title track apre con un ritmo vibrante, puro erotismo sonoro che travolge sensi, mente e corpo. Quasi dieci minuti di pura euforia, dannazione, alienazione. “Tidlaus”, in chiusura, evoca nostalgia, magia, natura, espressioni oniriche che sfociano in suggerimenti marziali esaltati da tripudio di cori (sono tanti i guest vocalist). Grazie ad una label che offre libertà artistica, in meno di quaranta minuti, i Krakow, giunti al quarto album, riassumono vite, emozioni, desideri, personalità, la loro città e, soprattutto, se stessi. Se stessi come artisti, come uomini, come Norvegesi, come spiriti liberi che vagano nel silenzio post atmosferico della notte che si affaccia nel fiordo. Una notte che cela infiniti controsensi.
(Luca Zakk) Voto: 10/10