(Nuclear Blast Records) Ormai gli Opeth hanno vacato quel delicato confine che divide i gruppi che devono ricercare ascoltatori dai gruppi che sono ricercati dagli ascoltatori. Inutile cominciare ogni loro recensione con la storia, le svolte e le polemiche, in fin dei conti un gruppo che si permette il lusso di cambiare dal death ricercato al prog anni ’70 in fin dei conti dimostra solo di aver realizzato uno dei propri sogni, ossia fare esattamente quello che vuole a livello musicale e campare di questo. E poco importa che l’ultimo album sia a nome Opeth o solo del loro carismatico cantante, perché si possono fare davvero tante altre considerazioni meno banali. Per quanti se lo chiedessero, i nostri non ci hanno ripensato, siamo ancora di fronte ad un disco prog in tutto e per tutto, perfettamente in linea con le ultime produzioni Opeth, ma non sono più del parere che bisognerebbe che gli svedesi cambiassero nome. Ascoltandolo molto attentamente, ho scoperto invece che gli Opeth non sono cambiati da album come “Blackwater Park”, essenzialmente per due ragioni. Prima di tutto l’amore per la malinconia che ha da sempre caratterizzato il gruppo. Non ci piove che anche album molto duri come “Deliverance” hanno sempre suscitato un’empatia immediata nell’ascoltatore, un mood che strizza l’occhio, anche se molto sommessamente, alla melodia in senso lato, una sorta di orecchiabilità congenita se vogliamo. Ma c’è anche un’altra ragione: se si ascolta questo album con molta attenzione e se si conosce bene l’intera discografia, si potrà notare come in realtà le linee melodiche, gli arpeggi, l’importazione del cantato siano esattamente gli stessi. Immaginatevi le stesse note di questo album, ma suonate in chiave death… ne uscirebbe esattamente un disco death degli Opeth, puro e semplice. E in quanto disco degli svedesi, è un’ulteriore prova della loro bravura di compositori, musicisti e raccontastorie, tutto ciò che si chiede ad una band in merito ad originalità. Fidatevi se vi dico che gli Opeth ci sono, non se ne sono mai andati, hanno solo cambiato lingua con cui emozionare… Tutto qui. A proposito di lingua, l’album è qui recensito nelle sue due versioni, in inglese ed in lingua madre. La seconda versione risulta vagamente più esotica ma altrettanto orecchiabile. Una prova di convinzione non da poco per questo gruppo, ormai entrato nella fase di maturità già da un po’.
(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 8,5/10