(Code666) Poche storie, ancora meno indugi… Qui scomodo gli Opeth e dico che i Piah Mater sono quello che i ragazzi di “Blackwater Park” non sono più da una vita, vale a dire una band integra, con una propria identità, con un proprio appeal. I brasiliani, qui al secondo lavoro, sfornano un disco in cui il progressive rock si fonde magnificamente con serrati riff death e a tratti pure a strutture che strizzano l’occhio al black. Parole grosse? Basterebbe confrontare il lavoro qui recensito con la produzione degli ultimi sette anni degli svedesi. Non c’è assolutamente paragone, qui c’è il black, c’è il prog, c’è la malignità che convive con il soave, lo struggimento che coesiste con l’epicità. C’è un esempio sincero e limpido di come si possa essere “retrò” senza risultare stantii, di come si possa risultare classici senza essere vetusti. Qui non c’è l’odore di muffa, bensì il lugubre sapore della terra consacrata e vecchia di secoli. Un album completo, composto e suonato con stile e personalità, con preparazione tecnica e sensibilità artistica. Che dire… Un disco dall’indubbio valore, nettamente al di sopra della media, con pochissimi cali di qualità e soprattutto con un chiaro rimando a come dove essere suonato un certo genere che gruppi molto più blasonati hanno colpevolmente dimenticato. Ripeto, non c’è confronto. Da avere. Punto.
(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 8/10