(Inside Out Music) Quattro anni dopo “PFM In Classic – Da Mozart A Celebration”, album nato per tributare i grandi della musica classica, torna la Premiata Forneria Marconi con un lavoro che segna un ritorno alle sonorità che hanno reso la band tricolore una leggenda del rock progressivo, sia in Italia che all’estero. Una classe immensa, che in quasi cinquant’anni di onorata carriera ha permesso alla formazione capitanata dall’inossidabile Franz Di Cioccio di passare indenne attraverso mode, cambi di formazione, cambi di stili e collaborazioni esterne, riuscendo sempre a stupire sia a livello compositivo che tecnico. “Emotional Tattoos” è pubblicato anche in versione doppio CD, dove uno è cantato in italiano e l’altro in inglese. Una scelta azzeccata, a mio avviso, perché a volte ho come l’impressione che alcuni brani fossero concepiti per essere cantati in italiano, come l’opener “Il Regno” (“We’re Not an Island”in inglese), che richiama le melodie dei primi lavori della band, mentre un pezzo come “The Lesson” (“La Lezione” in italiano) rende di più in inglese, con sonorità alla Genesis, in particolare per quanto riguarda le linee vocali. “Mayday” è particolare, perché nella versione cantata in italiano risulta accattivante, unione tra la tradizione melodica tricolore ed il prog alla ELP, un mix che è diventato un marchio di fabbrica per la PFM. La versione inglese, intitolata “So Long” ha una timbrica vocale che richiama nuovamente Phil Collins. Affascinanti le partiture di Hammond che riprendono un po’ i Procol Harum. Ma è con la strumentale “Freedom Square” che i nostri danno il meglio, con un brano prepotentemente prog fino al midollo, dominato da tempi dispari, un basso esuberante, grandi assoli di chitarra e tastiere che rievocano il miglior Keith Emerson. Un grande ritorno, dove rock progressivo, tradizione italiana e strizzate d’occhio al pop, convivono in maniera congeniale, consegnandoci il ritorno in pompa magna di una band che ha scritto pagine fondamentali del progressive rock.
(Matteo Piotto) Voto: 9/10
(Inside Out Music) Certo che quarantacinque anni di onorata carriera non sono da tutti, specie in un ambiente musicale ‘di nicchia’, dove un passo falso può davvero decretare la fine di un gruppo. Tra alti e bassi la PFM è arrivata fino ai giorni nostri, con una line up solo parzialmente originale. Ma è forse questo il bello di un gruppo vero: ossia resistere ai cambiamenti mantenendo immutata la propria anima, quasi che PFM fosse un’entità che va al di là della somma dei singoli componenti. Questo secondo me è uno spartiacque invalicabile tra la musica che resterà nel tempo e quella che verrà fagocitata dal passare delle mode passeggere. Manco ce ne fosse il bisogno, ribadiamolo in modo chiaro e tondo, la PFM è la storia del prog, assieme a Balletto di Bronzo, Le Orme, Il Banco… Un genere che ha nel nome il proprio destino, ossia essere progressivo, guardare avanti. Magari son troppo machiavellico io, ma paradossalmente chi guarda sempre al futuro è in un certo senso staccato dal tempo, libero di attraversare gli anni e i (mal)animi degli ascoltatori che per generazioni hanno dato alle proprie fasi della vita la colonna sonora del gruppo italiano. In questo lungo preambolo ho cercato di far capire al lettore che si, ci son stati dei momenti di transizione e magari capitoli discografici meno riusciti, ma il peggior album della discografia del gruppo supera di gran lunga la media di ogni altra band del settore e non. Quindi, andando con ordine, l’aspetto tecnico non è nemmeno contemplato in questa recensione, perché se uno suona da quasi mezzo secolo può suonare anche una chitarra di carta o un tamburo di latta e farne uscire delle strutture musicali perfette. La musica poi, beh, è quello che si diceva poc’anzi, siamo di fronte ad un disco onesto e che ha mostrato il marchio PFM sin dalla prima nota ed ancor prima nella copertina. Lo stesso album è presente in italiano e in inglese, ma da sicuramente il suo meglio con l’idioma di casa, come era logico aspettarsi. Qui c’è l’anima del rock progressivo, magari leggermente più aggressivo in alcune tracce rispetto al passato e dal respiro più internazionale, dettato quasi sicuramente dall’etichetta, che non fa altro che confermare l’importanza a livello mondiale degli italiani. La voce di Di Cioccio, vagamente simile a Collins, segue melodie che si sposano alla perfezione su giri pindarici di tastiere, atmosfere e percussioni. Le chitarre sono come ormai da consuetudine relegate in secondo piano, quasi a creare loro le basi per la parte ritmica e non viceversa come si usa di solito. D’altra parte stiamo parlando di innovatori musicali che, se è vero che si sono sempre staccati dal tempo, allora non invecchieranno mai. E chi non invecchia è semplicemente eterno, in altre parole immortale.
(Enrico Burzum Pauletto) Voto: 8,5/10