(Pitch Black Records) Bene o male? Giusto o sbagliato? Aggettivi senza senso per descrivere con pareri soggettivi, visioni limitate, concetti impoveriti di qualsiasi argomento, fatto, opera. Aggettivi poveri appunto, privi di valore assoluto che usiamo per legalizzare le nostre stesse azioni. Azioni orientate al bisogno, alimentate dall’istinto, azioni dominate da regole fittizie, create, modificate e demolite per supportare l’illusione di un’azione dentro quel ‘giusto’ descritto dalle regole stesse. Una sequenza di creazione e distruzione. C’è un’eterna battaglia tra i concetti di creazione e distruzione dentro la mente umana. Una battaglia senza fine. Una battaglia che continua. Che domina la chiave di lettura di questa opera. Un’opera metal, un concept album creato da un progetto strano, al debutto, originario di Israele e capitanato dal chitarrista Yuval Kramer. La chiave di lettura dell’album è anche la chiave di lettura di questa recensione, di queste parole vaghe in un oceano di concetti esposti da milioni di voci, migliaia di lingue; Risultato valido o scadente? Proposta sensata o inutile? Io adoro le metal opera. Adoro i concept album. Ma forse -per me- esiste un limite. Sapete, c’era una volta qualche band capace di creare cose diverse. Poi sono nati i geni come Lucassen e Sammet. Sono nati progetti come Ayreon e Avantasia. Progetti intelligenti costruiti su concetti espressi in musica, su storie raccontate in canzoni anziché capitoli. Progetti illuminati e forse pionieristici, capaci di portare sullo stesso album invitati di spicco, musicisti unici e simbolici che altrimenti mai avrebbero suonato o cantato nella stessa canzone o album. Tutto ad un tratto mi guardo attorno e vedo che questi stessi geni calcano la mano su un simile concetto. Spingono lo sfruttamento di un’idea. Che forse diventa ripetitiva (Avantasia?). Vedo artisti ritenuti falliti dalla critica che, per reinventarsi, trovano degli ospiti e fanno una rock opera materializzandola dal nulla, buttando a mare le sensazioni che li stavano guidando nella composizione (Tolkki?). Vedo artisti geniali ed unici che in passato mi hanno sorpreso, stupito, rapito, i quali per tentare il grande salto abbandonano la loro strada, cercano in modo ossessivo ospiti illustri e si mettono al lavoro su un’altra -un’altra!- rock opera (Amadeus Awad?). Guardo i credits: gli ospiti alla fine sono sempre gli stessi. O quasi. I più illustri compaiono almeno su due progetti composti nello stesso periodo. Vedere, io capisco la crisi, la sento, capisco che bisogna mangiare… ma cosa c’è in giro? Il mercatino dei guest vocalists? La bancarella dei musicisti ospiti? Cosa mi serve un bassista qualsiasi che ha suonato in una rock opera come ospite? “Pinco pallino”? Non lo conosco. “Pinco Pallino (Ayreon)”: cambia tutto, hey, ha suonato con Ayreon. Fermiamoci un attimo. Questa cosa mi fa impazzire. Sento un gelido terrore. Il terrore che anche questa ultima frontiera di genialità umana diventi ovvia, semplice. Commerciale. Reign Of Architect: progressive metal band Israeliana. Nomi poco noti, e ospiti più o meno particolari, come Jeff Scott Soto. Album atmosferico. Con idee tutto sommato carine. Un ascolto interessante, con momenti estremamente emozionali che catturano l’ascoltatore. Ma sapete come valuto io l’emozione di un album del genere? Semplice, ho il metodo di misura, il mio metodo di misura personale: ascolto il lavoro… senza sentirlo. Sottofondo alla mia vita. Colonna sonora della mia giornata. Perché la musica è questo, la soundtrack della vita, e le emozioni devono essere risaltate, potenziate dalla musica. Quando ascolto in questa modalità, c’è un settore del mio cervello che si lascia catturare quando sente quel groove, quel sound, quel ritmo, quell’idea. “Rise”, poco più di un’ora di musica, scorre via fluido. Non cattura quel settore del mio cervello. Non manda messaggi che mi fanno impazzire, che mi fanno tornare allo stato cosciente, che mi fanno ripetere un pezzo alzando il volume al massimo. “Rise” scivola via, come acqua in un torrente. Un ascolto più attento rivela certamente molte cose. Rivela che pezzi come “Hymn To Loneliness” o “The Green Flame” sono veramente belli. Ben strutturati. La componente emozionale inserita in tutto il disco è di alto livello, un dovuto arricchimento al racconto di una storia, di un concetto, in chiave musicale. Però c’è troppo Ayreon, troppo Avantasia, troppi Dream Theater. C’è troppo di già sentito ripreso, ricreato, rigenerato. Una rock opera deve lasciarmi senza l’anima, me la deve rubare. Manca quasi un filo conduttore. Molteplici le voci che interpretano i personaggi… si passa dalla voce angelica femminile e si arriva al growl. Lecito, dovuto… ma il risultato appare spezzettato, poco legato, non armonioso. Il giudizio? Impossibile. Mi rendo davvero conto che sarebbe inutile in quanto totalmente personale, soggettivo. Sarebbe la giustificazione dei peccati dei quali mi macchio con i miei gusti musicali, la scusa del mio momento emozionale, e sarebbe una sentenza che non renderebbe minimamente giustizia al notevole lavoro che è stato evidentemente fatto per creare questo disco molto ben prodotto e concepito. Tecnica e frasi musicali sono tutti di altissimo livello. Sample e ambientazioni sono sicuramente superlative. Impegno di sette membri della band (tre cantanti) e ben dieci ospiti. Numeri monumentali, per un’opera che deve colpire l’anima. Ok, non ha colpito la mia. E forse, è solo un mio errore.
(Luca Zakk) Voto: s.v.