(Cyclone Empire) Un gioco di incastri musicali concepito da una mente dispersa nella pura paranoia, in preda ad una sindrome di annullamento di qualsiasi essenza sia in grado di alimentare la vita umana. Pura disperazione, totale annientamento della luce, completa negazione della speranza, del futuro, della felicità. Depressione. Depressione infinita che emerge da ogni singola nota di questo album, di questa opera, di questa faccia più triste e decadente del doom e del gothic. Una scorciatoia, nemmeno tanto breve, verso nuovi livelli di angoscia, la quale galleggia su un mare nero e denso, inabissandosi, depositandosi sul fondo delle coscienze, alzando sedimenti che mutano quel nero assoluto in una tonalità ancora più tetra, impenetrabile, solida. E’ il quarto album, in quasi vent’anni, per questa band Danese. La quarta eclisse. Il quarto allineamento astrale. Un’espressione artistica sempre più malinconica, sempre più emozionale. Un disco che riesce a trasmettere emozioni brutalmente intense, un viaggio verso i lati più disperati della mente umana. Flemming Rasmussen (il genio che ha prodotto “Ride The Lightning”, “Master Of Puppets” e, soprattutto, “..And Justice For All”) è l’alchimista che aiuta a rendere ancora più tetre e profonde le divagazioni notturne di Thomas A.G., Il quale risulta devastante con il suo growling profondo e agonizzante, ma anche assurdamente inquietante e poetico con delle parti parlate ricchissime di atmosfera. L’accesso alle tenebre è affidato a “Litany Of Rain”, un pezzo sullo stile dei vecchi Paradise Lost, caratterizzato da una lentezza angosciante, pesante come tutti i peccati dell’umanità. La porta delle tenebre si spalanca definitivamente con la dolce tristezza dell’arpeggio iniziale di “Wind Torn”, un assoluto capolavoro di melodie che scorrono come lacrime di sangue su un volto pallido e morente. Riflessiva “A Lonely Passage”, un pezzo acustico che lascia straripare fiumi di emozioni intense. Improvvisa l’accelerata di “A Fathers Providence”, forse il pezzo più heavy del disco, che mi riporta alla memoria anche vecchi capolavori dei Crematory. “Morning Sun”, nonostante il titolo, è quanto di più lontano dalla luce, dalla vita del mattino, dalla rinascita. Un inno alla tristezza, suonato con una lentezza dolorosa, una dolce discesa verso la fine, degustando ogni ultimo secondo di vita. Il pezzo è caratterizzato da una forza brutale, con una voce che si insinua subdola, come un serpente che lentamente stringe la sua morsa mortale attorno alla preda. “Between” è sicuramente il pezzo determinante dell’album, una mastodontica opera di oltre undici minuti che riesce a riepilogare eccellentemente la proposta artistica dei Saturnus. Non c’è spazio per la gioia durante questa ora ed un quarto di tenebre. Le note di questo album sono qualcosa di reale, un etere che si materializza in sostanza solida, che colpisce e lacera, lasciando profonde ferite. E permanenti cicatrici.
(Luca Zakk) Voto: 8,5/10