(Punishment18 Records) Nati nel 2000 dalle ceneri dei Rapid Fire gli Slabber incidono il loro secondo album dopo “Colostrum” del 2017. Lo fanno con la volontà di creare un lavoro che possa suonare diretto e sempre direzionato ai loro canoni dell’heavy metal. Alessandro Bottin ha una vocalità con punte vicine a quelle di Bruce Dickinson, forse anche di Geoff Tate, nelle tonalità alte, mentre il discorso del riffing è tutto da rapportare a Marco Poliani. Il chitarrista gestisce ingfatti riff e assoli tracciando un percorso che nasce nell’heavy metal con elementi di stile classici – qualcosa dai Queensrÿche forse – che si evolvono verso tracce moderne, con qualche concessione allo speed metal. Francesco Valerio, bassista, e Marco Maffina, batterista, completano il sound della band – nel quale entrano per qualche sfondo dei synth – con una solidità che si integra alle direzioni intraprese del songwriting e anzi aiutandolo a crescere. Nell’arrangiamento generale i tre scatenano le giuste reazioni per plasmare i pezzi. I brani sono tutti veloci e tra i dieci c’è dunque una sorta di corsa travolgente tra l’inizio e la fine di ogni canzone. Un susseguirsi di intrecci tra riff e ritmi che diventano un crescendo nella strumentale “Mashup”. Proprio la velocità, la vivacità e l’essere istrionici determina l’identità della band che nell’ultimo brano “Condemned to Live”, preceduto da una intro di sintetizzatori, si intravede qualcosa al di là della tecnica frenetica di Poliani e soci attraverso qualche rallentamento e una creazione di scenari con atmosfera. Un modo che presenta un volto diverso eppure ancora troppo nascosto degli Slabber. C’è la curiosità di sentire anche qualcosa di più placido dagli Slabber perché potrebbe generare elementi melodicamente ancora più imponenti, rispetto ai loro comunque buoni standard.
(Alberto Vitale) Voto: 7/10