(Fiction / Lost Music / Universal / Polydor / Capitol Records) Il quattordicesimo album dei The Cure si intitola “Songs Of A Lost World”. La band nasce a Crawley in Inghilterra nel 1976. Resta forse la vera e unica formazione di un periodo che ha offerto al mondo la malinconia, sogni e incubi, frustrazione e angoscia, il cinismo e la poeticità di una scena musicale inglese prima, perché nata dopo l’epopea punk, mondiale poi, che ha prodotto nomi come Bauhaus, Siouxsie And The Banshees e così via. Una volta e oggi di più, i Cure non sono più l’essenza di quella scena, sono infatti ben i periodi del post-punk e del dark. Soprattutto lo sono per i Cure che hanno mischiato le carte del proprio essere e stile da innumerevoli album e dunque anni. “Songs Of A Lost World” è una prova maiuscola per Smith, Simon Gallup e compagni. Un album godibile che scivola con semplice grazia e una struttura gradevole. Nessuna melodia appare forzata, la produzione che misura i suoni lasciandovi però la loro impronta. Un aspetto che porta alle orecchie una concretezza consolidata dalla band. Non si nasconde, con un certo compiacimento, che questi suoni presenti nell’album, sono gli stessi uditi da parte della band dal vivo nel 2022. Anche i Cure forse producono in funzione di quanto ne faranno dopo di certe canzoni, questo è mestiere e non necessariamente una conseguenza della creatività. Vuole essere solo una constatazione. L’album è stato annunciato e postdatato più volte, nel tempo però alcuni pezzi venivano suonati dal vivo, proprio come negli anni ’70, con buone reazioni da parte della platea. Nello specific sono “Alone”, “A Fragile Thing”, “And Nothing Is Forever”, “I Can Never Say Goodbye” e la conclusiva “Endsong”. Si può constatare qualche ripetizione di troppo, da cose del passato, caratteristica di tutte le band di un certo lustro. Allo stesso modo una voce, quella do Robert Smith che sembra davvero uguale a sé stessa da sempre. Poetico “Songs Of A Lost World”, a tratti sognante, ben limato dalla presenza di Jason Cooper alla batteria, soprattutto dall’abile tastierista Roger O’Donnell (colui che ha forgiato i tasti bianchi e neri di “Disintegration”) e il misurato Reeves Gabrels, chitarrista impiagato anche con David Bowie tra i tanti. “Songs Of A Lost World” ha qualche passaggio ridondante in certi suoi momenti, però questa band non nasce nel 2024 e non tiene conto delle esigenze della musica oggi schiava dei media sociali. Sono musicisti che si prendono il loro spazio e tempo, con pregi e difetti annessi. In chiusura e dopo ascolti piacevoli, stupisce solo un aspetto, e in negativo di “Songs Of A Lost World”, la mancanza di uno stramaledetto, sofferto, malinconico ma concreto a accettabile singolo che Robert Smith ha sempre tirato fuori. Per il resto è un album che non si scarterà, un giorno quando si traccerà la linea per la somma di questa storia decennale degli intrepidi The Cure.
(Alberto Vitale) Voto: 8/10