(Autoproduzione) Una copertina che sembra la degenerazione dell’arte di Botero. In cima campeggia in grigio opaco su un fondo nero il nome della band, The Fat Dukes of Fuck, e il titolo dell’album, cioè “Honey from the Lips of an Angel”. Il lay out interno presenta una placida e vittoriana chiesa in legno con accanto un fiammifero e con sotto la dicitura “Computers have no place in art”. Segue di fianco una sorta di santone, con gli occhiali, vagamente alla Cristo e che per accendersi la sigaretta ha appena lanciato via quel fiammifero. Nel retro della copertina la chiesa è in fiamme e di fianco al disegno (sono tutti disegni) la track list, formata da nove canzoni. I dati certi che riporta l’album sui The Fat Dukes of Fuck, sono gli autori ed esecutori (cioè loro stessi) delle canzoni, studio di registrazione, artwork (di Athenas) e le scuse dei Fats all’attore Kevin Kline. Niente di più e dal loro sito internet si vede che sono degli svalvolati provenienti da Las Vegas: si fanno chiamare Ice Pube, Professor Horse Exhaust, The Shit Wizard e Crib Death. La loro musica fugge da una catalogazione precisa, ma tenterei di definirla crossover (soprattutto per certe soluzioni tipiche dei primi anni ’90), loro invece “sabbath meets hallucinogens”; tuttavia anziché spiegarli attraverso le etichette sarebbe meglio riassumere sommariamente le loro possibili ispirazioni. Mike Patton, di sicuro quello dei Mr.Bungle, ci metterei anche i Melvins, alcune divagazioni alla Al Jourgensen, ma fuori dai Ministry, qualcosa dei Green Jelly (esistono ancora?) e i Royal Trux (loro anche?). Heavy metal, rock, svisate punk, country marce stoner, hard rock americano, tutto fa brodo in questo album e tutto serve ad essere sopra le righe, ma anche ad addensare i suoni e rendere unitaria la proposta dei pezzi. “Honey From the Lips of an Angel” è un album un po’ “fuori”, ma non del tutto. Non è quel genere di cose in cui le musica e il genere cambiano ogni due minuti e a dispetto del loro essere eccentrici, ironici e burloni – niente testi a disposizione, solo le loro bizzarre foto promozionali e live- sembra esserci comunque un songwriting concepito con attenzione. I funambolismi sono pochi, il coinvolgimento della musica è abbastanza elevato però. “Cigarette” dura meno di 5′, ma sembra durare il doppio per via di quell’ipnotico andare della batteria e basso all’unisono. “Oral Agenda” ha un piglio duro, hard rock e chitarre acide e “Sorry About Your Dick” è un desert rock/blues sfigurato. “Step Aside and Let That Fucker Dance” ha il country in se, ma esposto attraverso distorsioni dirompenti e un clima alla Buck Satan. L’apice è dato dalla title track, con un grazioso motivetto canticchiato dall’organo, un bridge maestoso e un drumming che si comporta come se fosse ad una parata. La loro musica è semplice e si assorbe immediatamente, complice anche il clima allegro che pervade questo “grasso” album. Devo riconoscere che sebbene la durata dei pezzi sia mediamente superiore ai 4′ (l’album dura 40′ in totale), a più riprese li ho percepiti come se fossero di più. I pezzi forse vanno accorciati, cioè andrebbe snellito il lunatico songwriting il quale sforna comunque musica di sostanza
(Alberto Vitale) Voto: 7/10