(Season of Mist) C’è sempre da prestare attenzione quando Tamás Kátai mette sul mercato una release del suo progetto Thy Catafalque. C’è da prestare attenzione e cercare un vasto ritaglio di tempo per dedicarsi religiosamente all’ascolto, alla percezione, all’esaltazione di una vasta gamma di emozioni e sensazioni. Il settimo peccato trasportato dal catafalco è un piacere oscuro di lunghissima durata (l’album dura oltre un’ora) il quale, grazie all’ampia lista di guest (comprese vecchie conoscenze dei Thy Catafalque, come Attila Bakos che cantò nel quarto e quinto album, o la fantastica soprano Ágnes Tóth) aumenta l’intensità, la resa, convergendo in un’efficenza sonora teatrale che coinvolge in un mondo oscuro ma suggestivamente magico. Nove tracce immense che esplodono in vari generi metal, sfiorandoli, abusandone, girandoci attorno, seducendo, sconvolgendo, amplificando le percezioni. ”Uránia” è magnetismo. Immediato. La opener presenta un riff pesantissimo, sostenuto da un’atmosfera trionfale con uno scream perverso e fumoso, una progressione irresistibile e le clean vocals ricche di suggestione, tetri incantesimi che implodono assorbendo tutto per poi esplodere travolgendo qualunque cosa in ogni direzione. “Sirály” è suono etereo. Natura. Pace. Il violoncello di Judit Csere esalta la percezione, le linee di basso sono pulsazioni terrene mentre la voce di Ágnes porta tutto in un’altra dimensione. Anche in questo brano la progressione è un qualcosa di immenso, geniale e pienamente teatrale. Equilibrio tra tetro rituale e spietata violenza con “10^(-20) Ångström”, un brano che oltre ad una impostazione violenta trova spazio per atmosfera, suoni digitali, un allineamento sonoro tra inferi terrestri e luminosi astri. “Ixión Düün” offre qualcosa di vagamente definibile come groove prog space death metal, in contrasto con la palese ambientazione soft atmosferica di “Osszel otthon” la quale anticipa la parte centrale del disco rappresentata da “Malmok járnak”, un brano di oltre ventuno minuti capace un po’ di riassumere l’album intero, per progressione, variabilità, atmosfere mutevoli, parentesi ambient, groove infinito, scelta degli strumenti, teatralità palese. Altro guest, Gyula Vasvári, alle clean vocals su “Vonatút az éjszakában”, un brano in costante piacevole inquietudine, con una divisione ritmica assolutamente esaltante e la tetra “Mezolit”, quest’ultima cantata in un growl oppressivo il quale innalza il livello spirituale nel momento del cambio verso le clean. Album immenso. Complesso. Contorto. La vera genialità è il sapere iniettare dettagli catchy in un labirinto di idee perverso, tanto da rendere questa ora di musica veloce, immediata, godibile. Esistono album brevi che sembrano non finire mai. E album lunghissimi che durano pochissimo… e che non vorresti finissero mai. “Meta” appartiene a quest’ultima categoria, in quanto domina e curva il tempo, creando una percezione surreale; e nel frattempo ruba anime e stuzzica le emozioni, impossessandosi di sentimenti, pensieri, sogni e incubi. La durata di un’ora secondo la misurazione terrestre del tempo, probabilmente si avvicina a valori infiniti dalle parti delle sue coordinate, in una dimensione parallela. In un mondo completamente diverso.
(Luca Zakk) Voto: 9,5/10