(Mighty Music) Quartetto danese che sfodera un brillante sound tra un pallido heavy metal e un rock di stampo seventies, stemperato da influssi Deep Purple e sporadicamente addirittura di natura Black Sabbath. Un suonare cristallino ma potente, scolpito con riff da impatto sia personali che ricavati dalle illustre eccellenze delle quali la band di Copenhagen trae il suo spunto. ‘Eppur si muove’ ovvero “And Yet It Moves”, il titolo è la celebre frase di Galileo Galilei, forzato dal Vaticano ad abiurare le sue tesi scientifiche che miravano a dimostrare come fosse la terra a ruotare attorno al sole. Le leggi della natura e la ricerca dell’uomo per comprenderle sono un elemento portante dei testi di questo album. Se tanta filosofia e scienza muove i testi, la musica presentata con assoluta padronanza dai danesi possiede proprio la stessa forza di eventi naturali. Un album che piace “And Yet It Moves”. Piace perché il frontman e chitarrista Anders Folden Brink possiede un ugola rispettabile e che riesce a passare da linee canore heavy ad altre hard rock o di stampo blues, riuscendo ad essere costantemente in tono con il mood delle canzoni. “Last Frontier” e “Children of a Killing Dawn” sono per esempio i brani maggiormente in affinità con i Deep Purple. Il gioco delle chitarre è portato avanti anche dall’altra sei corde di Birk nonché anche attivo nei cori. Brink e Birk creano assalti e assoli che ricalcano i Deep Purple, qualcosa invece dai Black Sabbath è relegato soprattutto ad alcuni passaggi e fasi di arrangiamento, oltre al già menzionato blues o rock blues che sia, il quale infonde quel tocco vintage e al contempo passionale. Inoltre il suonare da chitarre gemelle è spesso una soluzione che spunta nel climax dei brani. Martin Humann e Daniel Back, batteria il primo e basso e cori il secondo, sono ovviamente una ragguardevole sezione ritmica che sorregge le evoluzioni dei pezzi. “And Yet It Moves” è una brillante cavalcata, i suoni sono freschi e forti, i pezzi si fanno ascoltare e a volume alto. A differenza di un certo filone che si rifà totalmente al rock degli anni ’70, soprattutto nella vicina Svezia e dintorni, questo album che pure riprende quel suonare è tuttavia genuinamente e concettualmente fedele all’essenza del grande rock, ovvero suonare concretamente i propri strumenti, portandoli anche al limite e col fine di metterli contemporaneamente insieme. Riff travolgenti con batteria che segue in maniera distintiva e creativa. Assoli che mentre si sviluppano vengono sostenuti da scalate ritmiche di basso e batteria e con l’altra chitarra che scandisce un accompagnamento energico e volitivo. Un cantante che osa nelle tonalità e resta nel sentimento del pezzo. Certo, i Timechild non inventano il rock e già chiamarsi invertendo le parole di uno dei pezzi più noti dei Deep Purple al quale guardano sfacciatamente, indica che non è l’originalità ciò che vogliono promuovere. Tuttavia suonare cercando di essere più aderenti ai Purple e con una chitarra in più e un organo in meno, non è da tutti, considerando che tutto sommato vi riescono.

(Alberto Vitale) Voto: 8,5/10