(Soulseller Records) Ci hanno preso gusto i norvegesi Tulus con il precedente “Old Old Death” uscito nel 2020 (recensione qui) dopo la loro lunga pausa artistica (la seconda, in quanto band pubblicò tre dischi negli anni ’90, poi silenzio fino al 2007, poi un disco nel 2012 e nuova lunga pausa fino al 2020). Ma dopotutto, pause, ritardi, innumerevoli impegni con altre bands (tutti i componenti del trio militano anche nei Khold, senza dimenticare che il batterista è Sarke dei.. Sarke!), siamo davanti a una band con una line up molto stabile (ci sono stati avvicendamenti solo con le quattro corde, posizione ora saldamente occupata da Crowbel dei Khold, dei Funeral, dei Minas e pure live per Sarke) che rappresenta tre decenni di black metal norvegese senza compromessi… come testimonia anche il documentario recentemente pubblicato (qui). E, diavolo, questo “Fandens Kall” è bollente come il metallo fuso… e contemporaneamente gelido come una lama che fende le carni: esaltante, pulsante, registrato in maniera sublime, ricco di evoluzioni, di idee, di momenti suggestivi, atmosferici, groovy… pur rimanendo sempre profondamente legato al vero ed assoluto black. Tuonante la title track: tagliente, penetrante, con un groove monumentale, con linee di basso avvolgenti e accenti delle tastiere (in questo disco le suona Anders Hunstad dei Sarke!) perfettamente azzeccati. “Lek” è un black che ad un certo punto, con una graffiante divagazione di basso, diventa death vecchia scuola, crescendo verso melodie intense, prima di tornare con genialità al tema principale; il mid tempo profondo e macilento di ”Slagmark” scandisce un brano che offre il meglio del black norvegese, solitamente firmato Taake, Satyricon, Immortal o Gorgoroth. Violenza ma anche headbanging con la lacerante “Allstøtt”, brano con riff contorti, melodie crudeli e un’ulteriore prova del grandioso basso presente in questa release. Cattiva e perversa “Isråk”: lineare, pesante, un po’ black’n’roll… fino al drammatico cambiamento tematico che giunge a metà brano, punto dal quale tutto diventa più ricercato, più progressivo, più sognante. Imprevedibile “Samuelsbrenna”: chitarre acustiche minacciose, parentesi distorte favolosamente doomy… un groove quasi blues… per una sublime rappresentazione sonora del male. Pulsante e trascinante “Sjelesmerte”, brano che affianca black più sporco ad un black più ricercato, una canzone che vede anche ospite la voce femminile di Lena Fløitmoen (già più volte ospite dei Sarke, tanto per intensificare quel family feeling che aleggia in questo disco e nei Tulus stessi). I cambi, i crescendo, le chitarre acustiche, le progressioni atmosferiche, il favoloso basso: tutti dettagli che rendono “Bloddråpesvermer” un brano superlativo… chiuso poi dal pianoforte di Lars-Erik Westby, anche produttore e ingegnere per (indovinate?)… Khol, Sarke, Minas, Tulus e pure Solefald! Ribelle e scatenata, anche se tutt’altro che prevedibile “Snømyrkre”, prima della conclusiva “Barfrost”, un outro poetico, atmosferico, infinitamente malinconico. Dietro una bellissima copertina di Kjell Åge Meland, il quale è stato in grado di rappresentare innumerevoli concetti black metal dentro questi pochi centimetri di disegno, i Tulus regalano un’altra pietra miliare di puro, vero, sincero, diretto e dannatamente coinvolgente metallo nero: un album scritto con passione ed intelligenza, registrato in maniera sublime, tanto che il bilanciamento di strumenti e voci rasenta la perfezione, regalando un suono organico, carnale, maledettamente vivo.
(Luca Zakk) Voto: 9/10
Il documentario: