(Moribund Records) Ammetto che in tutti questi anni non ho mai seguito i Wyrd, pertanto parto da un’approccio neutro, un po’ quello di chiunque altro che entra in contatto con questi finlandesi per la prima volta in assoluto. “Death Of The Sun” è il loro nono album, ma il primo negli ultimi sette silenziosi anni. Una gestazione lunga e complessa che ha dato vita a qualcosa di difficilmente qualificabile, quasi inclassificabile, a meno che l’inclusione in molte (moltissime) categorie non sia essa stessa una classificazione speciale; infatti qui dentro c’è un po’ di doom, moltissimo folk, tanto epic e pagan, ma anche metallo vero, quello puro, quello dalle discendenze maideniane, power o speed, con inserti di black, death ed un’altra manciata di stili. Ognuna delle nove canzoni è profondamente diversa, anche dal punto di vista dell’approccio vocale, tanto che sembra una geniale compilation di varie bands piuttosto del disco di un singolo act! La title track è epica, tirata, sfocia ampiamente su generi estremi, offre un growl crudele ma anche parentesi suggestive. “Man of Silent Waters” è ancora più epica, ancora più trionfale, praticamente inno spinto in alto da un clean vocal suggestivo oltre ad uno spoken molto inquietante. Cambia tutto con “The Sleepless and the Dead”: veloce, riff tuonanti, sembra una versione power folk degli Hammerfall, con un tocco di keys molto intelligente. Voce? Ovviamente a tema, alta, squillante, tuonante anche se affiancata da un qualcosa di cavernoso. “Pale Departure” è lenta, arpeggiata, uno story telling seducente prima di una apertura trionfale con un growl fantastico. Attenzione: queste sono solo le prime quattro canzoni, le restanti cinque continuano a sorprendere, svoltando, cambiando ed offrendo infiniti stili vocali, tutti perfettamente amalgamati nello sviluppo compositivo dell’album. Infatti “The Pale Hours” è un folk-black tirato, ma anche dannatamente catchy, come risulta catchy anche il mid tempo della seguente “Inside”, pezzo che riserva ulteriori sorprese al microfono. Si svolta su idee symphonic metal sulla feroce “Cursed Be The Man”, mentre si sfiorano dimensioni da sogno con l’affascinante “Where Spirits Walk the Earth”. Chiude “Rust Feathers”, che un po’ riesce a riassumere le varie direzioni artistiche intraprese durante questi cinquanta minuti veramente godibili e divertentei. Come premesso, io non li conoscevo ma è stata veramente una grande sorpresa. Il continuo salto stilistico non appare come un’accozzaglia di canzoni spinte a forza dentro lo stesso disco, anzi, le evoluzioni seguono un perverso programma che suggerisce una grandiosa genialità compositiva.
(Luca Zakk) Voto: 8/10