(Mascot Label Group) Torniamo indietro di almeno vent’anni. Venerdì, o forse sabato sera. Esci con i soliti amici, vai in un pub. Ordini la birra. Fumi una sigaretta. Poi un’altra birra mentre saluti altri avventori, i regolari del posto. Altra sigaretta, due chiacchiere con il gestore, figura imponente e mistica al di là del bancone, dopotutto è lui che decide se puoi berne un altro o no. Nell’angolo c’è un piccolo palco, c’è una batteria, due strumenti, un paio di amplificatori. È presto. Tanto la birra sembra infinita, l’attesa sa di luppolo e tabacco. Ad un certo punto salgono sul palco dei tizi, capelloni, uno di loro ha un look barocco e ti chiedi cosa cazzo fa in un pub di bikers inquietanti mescolati a hippies colorati. Saranno forse le dieci, magari le undici, che ne sai tu… la notte è lunga… ma la band inizia a suonare. Sono tutte cover di mostri sacri come Beatles, Jimi Hendrix, Rolling Stones, Deep Purple, Clapton… pure i ZZ Top. Le canzoni scorrono via, ma quel chitarrista non è barocco solo nel look: lo è anche nel suonare, nell’accarezzare a velocità disumana quella chitarra color panna la quale, tra una birra e l’altra, una sigaretta e la prossima, credi di identificare come una Fender. La band ha una set list di almeno dodici brani, forse quattordici per i tira-tardi. Ma non ci sono solo cover: ci sono anche dei pezzi originali… e che pezzi! Spicca quella “1911 Strut”, strumentale tirato con una chitarra da un altro pianeta. Risalta quel blues carnale intitolato “Sun’s Up Top’s Down” nel quale il chitarrista ci inietta anche la sua voce un po’ southern, poco performante ma decisamente calda. La pura magia della chitarra emerge nel brano strumentale “Please Please”… mentre il bassista picchia più duro di Roger Glover nella epica cover di “Smoke on the Water”. Il sound grezzo dei ZZ Top diventa magia neoclassica con la cover di “Blue Jeans Blues”, mentre “Purple Haze” spicca il volo e diventa un brano ancor più virtuoso. Intanto la band snocciola la sua set list, ogni tanto scambia due chiacchiere con un pubblico intimo, molto lontano dai sogni di un’arena piena, ma comunque intenso, divertito e palesemente devoto al luppolo e al tabacco. Il concerto finisce. Ultima birra. Ultima sigaretta. La band carica tutto sullo sgangherato furgone sul cui retro spicca un adesivo con il logo del cavallino rampante. Luci spente, il pub chiude. Tutti a casa in qualche modo, ci saranno delle fottute scale da affrontare prima di morire definitivamente a letto, con i fumi dell’alcol e della serata heavy blues che annebbiano il cervello. Poche ore dopo sorge il sole. Un indomani con il faticoso risveglio. Un caffè al volo. Una sigaretta per carburare. Poi la visione. Ma chi cazzo era quel chitarrista mostruoso, quel blues-man barocco? Era Yngwie J. Malmsteen. Era emozione. Era tecnica e poesia espressa con sei corde! Vedete, Malmsteen vive nel giorno di oggi e si gode il successo dei giorni di ieri. Non scrive quasi più nulla di nuovo, non va in tour invadendo grandi arene e non chiama più i migliori vocalists della scena, anche perché forse quella scena non esiste più. Ma Malmsteen sa suonare. A Malmsteen piace suonare. Lo fa tutti i giorni, nella sua villa da qualche parte negli USA, circondato dalle sue Fender, dalle sue Ferrari e con la sua bellissima Moglie. Suona quel che gli pare, quando gli pare, per il semplice fatto che non ha più nulla da dimostrare, forte del fatto che nessuno ha osato imitarlo, nessuno è riuscito a superarlo per tecnica, originalità ed immagine. Un bel giorno, scende le scale, entra in studio (a casa sua), accende l’amplificatore, collega la Fender e si lascia andare, con il batterista che gli tiene un intenso ritmo. Quel bel giorno, qualcuno preme il tasto REC, dando vita a “Blue Lightning”. Lo amerete. Lo odierete. Ma state adorando o bestemmiando un dio: con tutti i vantaggi e le conseguenze del caso. Questo Dio, nel frattempo, ha creato una religione che nemmeno lui può distruggere, ed il sermone di oggi si chiama “Blue Lightning”.
(Luca Zakk) Voto: 8,5/10