Intervistando i Pharaoh, una delle più importanti realtà dell’US power odierno, scopriamo molte cose interessanti su quanto sia difficile fare musica in un paese grande quanto gli Stati Uniti. Discutiamo essenzialmente con il chitarrista Matt Johnsen, ma con una importante incursione del determinato singer (e non “vocalist”, come leggerete) Tim Aymar! Buona lettura!
Salve ragazzi, e grazie per questa intervista! Questa è la prima volta che discuto con voi quindi spero che potrete anzitutto presentare voi, la vostra attività musicale e i vostri primi tre dischi ai lettori di Metalhead!
(Matt) Ciao a te! Io sono Matt Johnsen e nei Pharaoh suono la chitarra. Ho dato vita alla band con Chris Black (batteria) alla fine del 1997 e insieme abbiamo reclutato poco dopo Chris Kerns (basso) e Tim Aymar (voce). Il nostro primo disco, “After the Fire”, è stato il primo prodotto sul quale io o Kerns avessimo mai lavorato, ma Tim e Chris Black si erano già mostrati un paio di volte sul palcoscenico metal. “After the Fire” era molto orientato verso gli Iron Maiden per quanto i miei interessi puntassero a un power metal più moderno, e credo che queste influenze risaltino talvolta in qualcuna delle nostre prime canzoni. Il secondo disco, “The longest Night”, è ancora un po’ maideniano ma espande significativamente le possibilità della band; e al tempo del nostro terzo album, “Be gone”, abbiamo davvero trovato il nostro sound personale, qualcosa che è decisamente nuovo per quanto si colleghi alla vecchia tradizione del melodic metal. Abbiamo poi realizzato un EP con alcune covers e brani originali che abbiamo chiamato “Ten Years”, e adesso stiamo finalmente rilasciando sul mercato la nostra quarta produzione. In tutto questo tempo non abbiamo mai cambiato la line-up e davvero adesso è impossibile immaginare i Pharaoh in ogni altra possibile forma.
“Bury the Light” è, come appunto dicevi, il vostro quarto disco. Come mai questo titolo, così oscuro e senza speranza?
(Matt) Non è davvero inteso per essere senza speranza perché abbiamo inteso “la luce” come una ingannevole forza del male. Non c’è assolutamente dietro una visione satanica del mondo o qualcosa del genere – è soltanto il modo in cui abbiamo strutturato le nostre metafore. Riguardo al fatto che il titolo sarebbe senza speranza, puoi vedere sulla cover che la luce sta emergendo dalla sua tomba, quindi faresti meglio a stare attento!
Nel disco mi piacciono soprattutto “The Year of the Blizzard” e “Graveyard of Empires”, i due brani più lunghi ed epici dell’album, e mi piacerebbe sapere qualcosa di più sui testi e sul processo compositivo di questi due masterpiece.
(Matt) Non posso parlare precisamente della composizione di “The Year of the Blizzard” perché Chris Black ha scritto questo brano da solo. Posso dirti in ogni caso che è stato a meditare su questo titolo per molto tempo. Ne abbiamo parlato durante le registrazioni per la batteria di “Be gone”, e volevamo che fosse la titletrack del nuovo album, ma alla fine abbiamo deciso che non avrebbe rappresentato le altre canzoni. A differenza di molti brani dei Pharaoh descrive una storia sobria, quasi del tutto fantastica, senza allegorie o significati nascosti. È inoltre interessante per il modo in cui aggiunge elementi di prog rock anni ’70 e di metal primordiale nel sound dei Pharaoh. Non credo che esploreremo ancora in dettaglio questi tipi di sound, ma nel suo contesto sono un simpatico attimo di respiro in un album altrimenti molto denso. Per quanto riguarda “Graveyard of Empires”, ci ho messo moltissimo tempo per scrivere questo pezzo. Quando suono la chitarra, tutte le volte che viene su un riff lo registro e lo salvo sul mio computer con un nome che indica il tempo e la chiave musicale. Quando arriva il momento di scrivere i brani per un disco frugo in questo miscuglio [in inglese “grabbag”, ndr] di riffs e provo a mettere assieme qualche pezzo! La canzone si chiamava appunto “Grabbag” finché non ho scritto il testo, perché l’ho iniziata quando ho tentato di incastrare assieme tre o quattro riffs dai miei archivi, ma ci ho messo mesi per scrivere tutti gli altri riff e per fare uscire fuori l’arrangiamento. Originariamente avevo pianificato che fosse Tim a scrivere le melodie, ma l’abbiamo tirata troppo per le lunghe, era ormai arrivato il suo momento di registrare e non avevamo ancora niente di pronto, così ho dovuto scrivere melodie e testo da solo. Credo, il giorno che ho cominciato a scrivere il testo, di aver letto qualche articolo sulla guerra americana in Afghanistan: si faceva riferimento a questo paese come il “Graveyard of Empires”, che è un vecchio soprannome per questa nazione disastrata. Pensai allora che fosse un eccellente titolo heavy metal, e naturalmente questo mi diede una opportunità di deplorare il conflitto, al quale sono contrario fin dal suo inizio. E negli ultimi giorni è diventato chiaro che l’intera faccenda è null’altro che uno spreco di vite, soldi e tempo. Una vergogna, davvero. Ma per quanto riguarda il brano sono abbastanza fiero del riffing: ci sono alcuni dei passaggi più difficili dell’intera discografia dei Pharaoh, e sono felice che tu li abbia apprezzati!
Ho una curiosità: cos’è l’oggetto che troviamo su tutte le vostre copertine? Cosa significa per voi?
(Matt) Noi la chiamiamo “la gemma”, e in realtà non significa niente di per sé; assume significato in relazione al resto della copertina. Nel primo disco rappresenta l’inevitabilità della vita, nel secondo l’emergere della cultura, nel terzo l’indomabilità della natura, sull’ep l’attrattiva della libertà, e sul nuovo album l’impossibilità di nascondere i problemi per sempre. È una specie di gioco divertente, per noi, costruire queste copertine e fare in modo che la gemma sia sempre rilevante.
Che cosa potete dirmi riguardo all’attuale scena metal della Pennsylvania? Potete suonare di frequente nel vostro stato e in quelli vicini?
(Matt) Noi non suoniamo e basta, davvero! Finora abbiamo messo su soltanto due show, uno in Germania e uno a Chicago. Abbiamo inoltre un terzo concerto in programma a Chicago a maggio, e speriamo stavolta di poter fare un po’ di tour vero. È difficile per noi dire che siamo una band della Pennsylvania, per quanto tre di noi vivano in questo stato. Chris Kerns vive a due ore da casa mia e Tim a circa cinque, per cui non è che ci vediamo troppo spesso, e la band, a conti fatti, non prova mai. Lascia che ti dica che è un modo davvero strano di fare musica!
La vostra musica è più apprezzata in USA o in Europa? E perché, secondo te?
(Matt) Probabilmente in Europa, ma soltanto perché la vostra scena metal è un po’ più consistente (almeno quella del metal melodico e tradizionale). Detto questo abbiamo numerosi fans negli Stati Uniti, ma è un grande paese e sono molto disuniti. Direi naturalmente la Germania è il nostro mercato più grande, poi vengono gli USA e poi alcuni paesi europei. Dato che non andiamo in tour e non facciamo riferimento al mercato locale, in ogni caso non ci preoccupiamo troppo di dove vivano i nostri fans, siamo semplicemente felici di averne!
Nel vostro primo album “After the Fire” c’è una delle migliori canzoni heavy metal che io abbia mai ascoltato, certamente nella mia personale top ten di power metal di tutti i tempi. Faccio riferimento a “Heart of the Enemy”. Cosa puoi dirmi su questo brano?
(Matt) Una scelta interessante! Il brano fu scritto da Chris Kerns con un aiuto da parte di Chris Black. Credo che Kerns abbia scritto la musica e forse le linee vocali e Black il testo. ‘ davvero una delle mie canzoni preferite dei Pharaoh per quanto mi piace suonare la parte di chitarra classica all’inizio. La canzone parla di un uomo in una fazione in guerra che riceve una donazione d’organi da un combattente delle parte opposta.
Che cosa possiamo aspettarci dai Pharaoh nel 2012? Avete organizzato qualcosa di simile a un tour? Vi vedremo in Europa?
(Matt) Lo spero, ma non c’è nulla di stabilito al momento. In questo momento penso che abbiamo bisogno di dimostrare alla gente che i Pharaoh possono essere una “vera” band, che siamo capaci di fare cose secondo l’old fashioned way. Siamo troppo vecchi per fare un tour classico vendendo ovunque i nostri dischi, ma questa probabilmente è la nostra ultima e miglior chance per andare lì fuori e incontrare la gente che ha reso possibile tutto questo.
Ho una domanda specificamente per Tim Aymar. Amo molto il tuo stile vocale, lo trovo uno dei migliori nell’intera scena classica per emozioni come rabbia e disperazione, e mi piacerebbe sapere chi sono i tuoi ispiratori.
(Tim) Potrei fare qualche nome, ma tutto dipende dal momento in cui mi trovo! Quando ero molto giovane mi intrigavano Smokey Robinson, i BeeGees, Franky Valley e anche Karen Carpenter. C’erano altri cantanti e compositori che ammiravo come Carol King e Kris Kristofferson, che ha cantato molto di più di quella roba che dice solo “baby baby baby”; tutti questi parlavano tutti di vita reale, di tutto il bene e il male. I miei grandissimi nonni vivevano alla porta a fianco alla mia e avevano una grande collezione di Cowboy Counrty e Western che cantavamo insieme tutto il tempo, mi piacevano davvero la voce di Patsy Cline e Loretta Lynne. Come divenni preadolescente mi interessai per Ian Gillan, Robert Plant, e più tardi per Steven Tyler, Derek St. Holmes , Brad Delp (RIP), e Ronnie James Dio (RIP). Queste sono le voci che amo, che richiamano per me le emozioni. Mi piace anche la voce di David Wayne (RIP) e Blackie Lawless e Paul Shortino sono molto in alto nella mia classifica così come Jeff Scott Soto, e infine direi Graham Bonnet. Qui c’è tutta la differenza fra cantare e “vocalizzare” [Tim usa qui il termine “vocalizing”, difficile da rendere in italiano, ndr]. La maggior parte delle band power metal ha un cantante che fa vocalizzi [originale “vocalist”, ndr]. Sono fantastici nella parte della ginnastica vocale, ma non ti spingono mai davvero in un brano con emozione e convincimento. Amo quando qualcuno ascolta una canzone che ho cantato io e mi dice come la mia voce lo fa sentire piuttosto di quanto bene io l’abbia cantata; e questo probabilmente perché molte delle voci che mi ispirano non sono quelle di vocalizzatori power metal, ma di cantanti.
Vi lascio come di consueto la fine dell’intervista, grazie per il vostro tempo e spero di vedervi presto in Italia!
(Matt) Sono stato in Italia due volte, la prima nel 2001 e la seconda per la mia luna di miele nel 2007. È un paese bellissimo e il cibo semplicemente è insuperabile, quindi spero di poterlo visitare un giorno con i Pharaoh. Ma per favore, non fatemi bere la vostra terribile birra, ci attaccheremo alla bottiglia di vino, d’accordo? (ride) Grazie per il supporto!
Renato de Filippis