Nonostante rientri ormai nella categoria del ‘metallaro quarantenne’, ammetto che gli Alestorm sono (o almeno sono stati…) fra i miei gruppi preferiti. L’uscita di “Captain Morgan’s Revenge”, nell’ormai lontano 2008, ebbe effettivamente un certo peso nel panorama un po’ stanco del power metal di quegli anni; e il successivo “Black Sails at Midnight” è, per quel che mi riguarda, un gioiellino ben bilanciato fra ironia, potenza e melodia.

Già, ironia: perché più o meno da quel punto in poi gli scozzesi hanno cominciato a presentarsi non come band ironica, ma come band parodistica; prima componendo canzoni come “Scraping the Barrel”, e forse ancora andava bene, ma passando poi alle varie “Drink”, “Wooden Leg!”, e oggi ormai a “Mexico”, “Bar und Imbiss”, “Man the Pumps” e “Fucked with an Anchor”, che sfociano irrimediabilmente nel metal demenziale, con buona pace degli inizi, che sapevano anche essere estremamente epici. Così va il mercato o forse così va la volontà di Christopher Bowes (che non a caso ha un altro progetto semiserio, i Gloryhammer)… io aspetto il momento in cui questa discutibile ondata farsesca stuferà il pubblico, ma intanto se gli Alestorm arrivano a Roma, e suonano all’Orion, sono ben curioso di vedere come si presenteranno.

La serata è aperta dai sempre interessanti Sailing to Nowhere, usciti sul mercato nel ’17 con il secondo disco “Lost in Time”: power/folk metal marinaresco che quadra bene con i temi degli headliner scozzesi. Nella lineup rinnovata Marco Palazzi duetta con la dotata Sara Tiezzi, e le voci dei due si fondono che è un piacere su un brano ipermelodico come “A new Life” o sulla traccia autotitolata. I Sailing sono la band di casa e il pubblico è già folto ad acclamarli: il loro show è inevitabilmente breve ma trascinante.

È poi la volta degli Skálmöld, che ormai tutti possiamo considerare i veri eredi dei Tyr e del loro modo così originale di fare viking metal: i fratelli Ragnarsson, che in tour conducono anche la sorella Helga come tastierista, puntano ormai con l’ultimo “Sorgir” a strutture sempre più quadrate e stentoree, sostenute dal vivo sia dalla potentissima batteria di Jón Geir Jóhannson, sia dal fatto che, nei momenti più epici, sono addirittura cinque dei sei membri a cantare e ad eseguire i cori dal vivo. Rispetto agli esordi, le keys sono appunto diventate uno dei cardini del sound, ma il folk non è del tutto sparito dal loro sound, come testimonia la conclusiva “Kvaðning”. Marziali, intensi, profondamente evocativi, gli Skálmöld convincono con la loro serietà anche un pubblico venuto essenzialmente per scherzare.

Ed ecco quindi apparire una papera sul palco.

E’ proprio così: un terzo della scenografia degli Alestorm è appunto costituita da un gigantesco gonfiabile giallo dalla forma inequivocabile, e quando Christopher Bowes si presenta sul palco con keytar, ciabatte, kilt scozzese, maglietta ironica e cappellino da camionista, diventa subito chiaro come la sua band voglia presentarsi oggi al pubblico. Sia chiaro, lo show è competente e preciso, con qualche momento di vera ilarità: e la musica non viene mai messa in secondo piano. Ma se il vostro ideale è ancora quello pelle e metallo, non siete nel posto giusto.

Dopo una doppia intro, prima western e poi da avanspettacolo, ci pensano due brani veloci come “Keelhaued” e “Alestorm” a scaldare il pubblico; sulla successiva “Magnetic North” Bowes si esibisce in un balletto alla Moulin Rouge sull’intero ritornello. Quasi tutta “Over the Seas” viene suonata dal frontman con una mano sola, perché con l’altra sta bevendo una birra; prima di “Hangover” giunge sul palco un gigantesco figurante (onestamente non ho capito di chi si trattasse) che prima beve due birre assieme in pochi secondi su un accenno di “Drunken Sailor”, e poi aiuta a cantare la famosa cover di Taio Cruz. Durante “Captain’s Morgan Revenge”, Bowes organizza un wall of death in cui divide le due parti chiedendo poi di scontrarsi e… copulare un po’ tutti insieme. I bis sono poi all’insegna dell’assoluta dissacrazione: “Drink” e “Wolves of the Sea” aprono il secondo set, ma la band si separa dal suo pubblico augurandogli di essere “Fucked with an Anchor”… non mancano però del tutto momenti ‘seri’: “Nancy the Tavern Wench” ha sempre capacità di far cantare tutti, e “1741 the Battle of Cartagena” (al netto della intro in midi) e “To the End of the Sea” caricano certamente il pubblico nel modo più battagliero.

Il bilancio, quindi? È certamente positivo, ma forse (forse, eh!) siamo di fronte a una band che poteva davvero cambiare qualcosa, ma ha preferito più modestamente prenderci in giro tutti. Con ottimi risultati, devo dire!

(Renato de Filippis)

Foto: Alex Altieri

 

Scaletta Alestorm

1.   Keelhaued

2.   Alestorm

3.   Magnetic North

4.   Mexico

5.   Over the Seas

6.   Sunk’n’Norwegian

7.   To the End of the Sea

8.   Nancy the Tavern Wench

9.   Rumpelkombo

10.  1741 the Battle of Cartagena

11.  Hangover

12.  Pegleg Potion

13.  Bar und Imbiss

14.  Captain’s Morgan Revenge

15.  Shipwrecked

16.  Drink

17.  Wolves of the Sea

18.  Fucked with an Anchor