Se veleggi verso i 40, diventa sempre più difficile continuare a fare il metallaro d’assalto: per assistere a un concerto degno di questo nome devi come minimo arrivare a Roma (che per il sottoscritto significa viaggiare 250km), se ti spostano una riunione di lavoro all’ultimo secondo parti con un’ora di ritardo, e a quel punto si blocca il GRA facendoti perdere ancora altro tempo, e mentre sei fermo ti rendi conto che nella fretta non hai portato le pile della macchina fotografica, e ti salta l’intervista e pensi che a stento potrai arrivare in tempo per il concerto… giungo al Whislist attorno alle 21.00, ben oltre l’orario di apertura delle porte, e solo l’estrema professionalità e la grande gentilezza di Simona e Floriana della Dark Veil, e di Mick Moss degli Antimatter, mi permettono di ottenere quel quarto d’ora per l’intervista in cui non speravo più. Di questo insperato regalo sono innocente vittima gli opener della serata, gli En Declin: posso ascoltare solo un paio di brani del loro sofisticato post/gothic metal rarefatto, poi mi allontano con Mick mentre i nostri suonano una cover alternative di “Another Day in Paradise” di Phil Collins! Mi scuso, dovrò limitarmi ad ascoltare gli Antimatter.
Già, gli Antimatter: una band che ho iniziato ad ascoltare perché nei primi anni 2000 seguivo molto gli Anathema (i nostri sono sorti come progetto di Duncan Patterson, allora appena uscito dalla formazione), ma da lì Mick e compagni mi hanno portato in un viaggio musicale che, prima dell’ultimo “Black Market Enlightenment”, ha prodotto altri dischi meravigliosi come “The Judas Table” e soprattutto “Planetary Confinement”, forse uno dei miei album preferiti di sempre. Per uno come me, abituato a ben altre sonorità, gli Antimatter appagano il lato più decadente e allo stesso tempo rabbioso del mio animo: i pugni in faccia che sono le canzoni di Mick, sempre dotate di testi incisivi e profondi, sono la colonna sonora immancabile dei miei momenti più complicati o introspettivi.
Quando gli Antimatter salgono sul palco, il Wishlist è pieno: non sarà un locale immenso, ma il colpo d’occhio è notevole. Mick interpreta da subito con profondità i suoi testi, che sono in fondo le sue emozioni, e le sue musiche fanno male e lo fanno nel profondo. Con la tracklist non si va molto indietro nel tempo, ma in fondo è giusto così: gli Antimatter hanno non solo un disco nuovo da pubblicizzare, ma anche la direzione sonora degli ultimi anni da fissare nella mente dei fans.
Mentre metabolizzo la opener “The third Arm”, dall’ultimo “Black Market” che ancora non so a memoria, la prima grande emozione me la offre una “Stillborn Empires” dalla resa particolarmente intensa, con Mick che talora mima il testo fino al trionfale e sardonico “It was a Business to have Pleasure with you”. Seguono altri due grandissimi brani: “Can of Worms”, ancora da “The Judas Table”, con il suo urlo lancinante sul refrain, e “Black Eyed Man”, le cui straordinarie aperture melodiche sfumano sul conclusivo e dilaniante“Feed yourself when you can / Fool yourself when you can / Kill yourself when you can”.
Durante un successivo problema tecnico con la batteria, la band imbastisce una versione acustica di “Another Brick in the Wall”, a testimoniare il proprio amore per i Pink Floyd; seguono poi il mantra ossessivo di “Paranova”, che ci ricorda che siamo tutti soli, e la cattiveria di “Killer”, che alterna dark rock, una batteria martellante, e l’atroce minaccia “Burn – I’d love to watch you burn”. Abbiamo ancora tempo per “Wide awake in the concrete Asylum”, che incalza con il suo ritmo nervoso; per “Redemption”, struggente e disperata; per la rarefatta “Leaving Eden”, uno dei migliori pezzi dell’intera discografia Antimatter, con la sua non rispondibile domanda “How long you can hide?”. La conclusione è affidata alla torrenziale e trascinante “Between the Atoms”, dall’ultimo disco: “This is what you wanted”, ripete decine di volte Mick, e ha ragione.
Grande artista, grande scaletta, grande show.
Allora, vi ho fatto innamorare di questa band oppure no?! Spero a sufficienza per farmi perdonare le foto dal cellulare…
(Renato de Filippis)