La dodicesima edizione dell’immancabile Black Winter Fest è stata intensa, intensa e storica. Storica, in particolare, in quanto ha portato sul palco, oltre a i nomi minori, entità epiche, grandiose, essenziali e… mai viste prima!
Questo concetto è molto importante, in quanto il Black Winter non è un festival in mano a nomi grossi, a imponenti entità editoriali o agenzie di booking ad ampio spettro. Il Black Winter Fest non è un Wacken, non è un Brutal Assault e nemmeno un Hell Fest. E non è nemmeno un Inferno o un Beyond the Gates.
Il Black Winter Fest è gestito da un ridotto manipolo di appassionati, di veri amanti delle sonorità estreme i quali vanno ben oltre la solita procedura per scelta del nome, pescando un po’ a ripetizione tra le bands in voga o fresche di successo per riempire la venue. Il Black Winter Fest, piuttosto, punta alla musica vera, selezionando ogni anno circa una decina di bands nazionali ed internazionali per riscaldare con del gelido black metal una giornata che, abitualmente, inizia quando il sole inizia a calare e i suoi raggi violenti ti penetrano le cornee, torturandoti la vista non appena osi guardare verso Ovest.
Ma anche quest’anno, ancora una volta, come tutte le volte precedenti, l’organizzazione offre una prova possente, impeccabile e convincente offrendo un bill ricercato e tutt’altro che scontato.
Aprono gli Shadowthrone, band nazionale fresca del nuovo “Elements’ Blackest Legacy” (recensione qui), impostando subito le tetre tonalità che avrebbero poi caratterizzato l’intera giornata fino a notte fonda.
Tra i nomi di apertura i norvegesi Djevelkult: nonostante la provenienza da molto lontano, si tratta di una band ancora relativamente giovane (fondata nel 2010 con un debutto nel 2014), ma il loro ultimo “Når Avgrunnen Åpnes” (recensione qui) conferma che il black vecchia scuola, sia in ambito sonoro che estetico, è tutt’altro che passato di moda… concetto molto ben capito dall’organizzazione del fest.
Ottimi segni di vita degli italiani Imago Mortis: il loro ultimo lavoro è ormai un po’ datato (recensione qui), tanto da far pensare ad un parcheggio delle attività della band; tuttavia la performance sul palco ha messo molto ben in chiaro che i Bergamaschi sono tutto fuorché tranquilli o fuori forma… tanto che la speranza è quella che esibizioni come questa possano scatenare la scintilla di una nuova produzione discografica.
I Selvans ormai sono ovunque: li trovi sotto casa, nel locale in fondo alla strada, agganciati a vari tour; te li ritrovi poi nel bill in moltissimi eventi di varie dimensioni… e la loro nuova incarnazione, ovvero l’egemonia dell’unico membro rimasto -Selvans Haruspex- sembra funzionare molto bene. Se questo apparente smembramento poteva far pensare alla sorte dei Draugr, le esibizioni dal vivo confermano invece che il progetto è dannatamente serio, funzionante e totalmente impegnato a guardare in avanti, molto avanti!
L’internazionalità della visione dell’organizzazione del fest è confermata dai Lucifer’s Child. La band greca, ormai con due album in repertorio, offre una impostazione del black profondamente diversa dai canoni nordici, creando -nel corso dell’evento- quella deviazione stilistica intelligente che assicura mancanza di monotonia, evitando una eccessiva omogeneità sonora: un’intera giornata all’insegna del black, certo, ma coprendo un vasto range di divagazioni sul tema, con i Lucifer’s Child tra i picchi che si estendono fuori dai binari artistici generali.
I Mork sono la prima vera grande sorpresa. La one man band di Thomas Eriksen esce dallo studio e dagli ovvii limiti di una band con un solo membro e si scatena -per la primissima volta- in Italia con un concerto poderoso, capace di rendere giustizia alla discografia, compreso l’ultimo e favoloso “Det Svarte Juv” (recensione qui). La sincera gratitudine di Thomas nell’avere l’onore di suonare davanti al nostro pubblico è toccante: ed il risultato è la materializzazione di uno spettacolo avvincente e travolgente, con tutto il necessario per caricare i fans in vista dell’orda bestiale che componeva la trinità conclusiva, quella degli headliners.
I Kampfar sono in maledetta forma. Dopo la lunga pausa per motivi personali, il ritorno intitolato “Ofidians Manifest” (recensione qui) già anticipava quella ritrovata forza esplosiva, quella rigenerata energia… ma l’esibizione sul palco ha spazzato via ogni più timida aspettativa: dopo venticinque anni la band di Dolk è tutt’altro che priva di energia, anzi, sta decisamente vivendo una seconda giovinezza, rivelandosi massacrante ed in ottima forma… esattamente come le condizioni fisiche dell’iconico frontman!
I 1349 sono pura violenza. Il loro concerto è un assalto sonoro senza rispetto, senza pace, senza pausa. Una specie di tsunami che spazza via il pubblico sia dal punto di vista sonoro che visuale, il tutto con l’incessante martellare del maestro Frost dietro le pelli. In un’ora la band di Oslo ha vomitato sul pubblico un cataclisma sonico spalmato attraverso un’ampia gamma di brani del repertorio, compreso il bellissimo singolo “Dødskamp”, senza risparmiarsi nel pescare anche dall’ultimo e favoloso “The Infernal Pathway” (recensione qui).
Per questa dodicesima ed epica edizione, a capotavola siede una band che in pochi hanno visto nell’originale incarnazione, e che comunque pochi vedranno anche in futuro, considerata la scelta direzionale del frontman Tom G. Warrior: i Triumph Of Death. La band di Tom, riesumata con lo solo scopo di tributare i mitici Hellhammer, ovvero la band che sta tra le radici del black che tutti conosciamo, esiste per desiderio dello stesso Tom e del defunto compagno d’armi Martin Eric Ain. Tom e Martin erano gli Hellhammer verso la metà degli anni ’80, prima di voltare pagina e fondare i Celtic Frost. Con il passare del tempo, Tom e Martin avevano più volte pensato di riportare in vita Hellhammer, ma il destino non li ha certo aiutati. Per questo Tom, ora e finalmente, porta sul palco brani che hanno scritto la storia e posto le fondamenta del metal estremo moderno e, per fare questo, sotto il nome Triumph of Death (dalla canzone degli Hellhammer) si fa aiutare da colleghi ed amici: le bassiste Mia Wallace (Abbath) o Jamie Lee Cussigh, Alessandro Comerio (Forgotten Tomb) e André Mathieu (Punish), dando vita a una serie di spettacoli occasionali e selezionatissimi che scavano nell’old school, riportando i fans alle origini della musica estrema, alle origini di tutto, agli albori dell’oscurità.
Un brutale appuntamento invernale che attira, nei meandri dell’underground degli eventi, centinaia di fans. Spesso molti festival come questo iniziano timidamente con una dimensione piccola, crescendo prima modestamente e poi a dismisura, fino a diventare troppo grandi, troppo complessi e troppo prevedibili nella proposta artistica. Il Black Winter Fest, invece, è cresciuto molto, ma resta (e vuole restare?) saldamente indipendente e legato all’underground: forse l’unico fest black metal in Europa dove si possono assistere a spettacoli unici, con bands chiamate appositamente per l’evento senza attingere dalla rotativa degli ormai ampi tour che portano i grandi nomi in ogni città del vecchio continente, offrendoti la possibilità di vedere una band oggi nel nord Italia, domani in Baviera e dopodomani in un cantone svizzero piuttosto che a due passi dal confine est della nazione. Un livello di esclusività tale che riesce a portare una buona percentuale di pubblico dall’estero, stravolgendo ed annullando completamente i tipici cliché relativi alla povertà della scena live del nostro paese!
Complimenti ragazzi!
(Luca Zakk)